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Paradise Beach: Dentro l'incubo

Regia di Jaume Collet-Serra vedi scheda film

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FabioGiusti

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La recensione su Paradise Beach: Dentro l'incubo

di FabioGiusti
7 stelle

Era da una decina d’anni, più o meno dall’uscita di Open Water, che il filone degli shark-movie non produceva nulla di anche solo decente.

Ci voleva il catalano Jaume Collet-Serra e il suo Paradise Beach – Dentro l’incubo per resuscitare in maniera credibile e soprattutto lontana anni luce dalle derive demenziali di Sharknado uno degli spauracchi balneari più perturbanti di tutto il cinema di genere.

L’intuizione è quella di ibridare il sacrosanto terrore per il più famelico tra gli abitanti degli abissi marini con un altro sottogenere ugualmente ansiogeno, ossia il survival thriller - la parabola di una persona comune che, sola di fronte a una serie di ostacoli apparentemente insormontabili, deve dar fondo a ogni sua capacità di problem solving pur di riuscire a sopravvivere - sintetizzato in maniera mirabile nel recente All is Lost di J.C. Chandor.

E, in tal senso, non è affatto un caso che la sceneggiatura sia opera di quell’Anthony Jaswiski che, su temi tutto sommato simili, aveva già detto la sua un paio d’anni fa con l’horror universitario Kristy.

Queste, per sommi capi, le coordinate di un film che fa il suo onesto lavoro dall’inizio alla fine senza perdersi troppo in convenevoli.

La muscolarità stilistica di Collet-Serra torna anzi utile quando si tratta di troncare di netto un incipit che rischiasin da subito di sconfinare nel melenso, fornendoci un background familiare della protagonista assolutamente non richiesto, per andare invece dritto al sodo, risparmiando ben poco allo spettatore in termini di salti sulla sedia.

 

Paradise Beach – Dentro l’incubo è infatti cinema di serie B, ma di quello fatto bene: privo di qualsivoglia svolazzo autoriale e, al limite, anche un po’ cafone per certe scelte estetiche, ma secco e teso nel suo concentrarsi esclusivamente sull’accumulo progressivo di pathos lasciando l’introspezione psicologica fuori dallo schermo.

Bastano due o tre elementi: una vacanza in Messico e Nancy, una giovane studentessa in medicina (Blake Lively) che ritrova la spiaggia isolata dove sua madre, scomparsa recentemente a causa di un cancro, amava andare anni prima.

Il posto è un vero e proprio paradiso e la ragazza ne approfitta per fare un po’ di surf.

Quando, verso il tramonto, scorge i resti dilaniati di una balena in mezzo al mare, Nancy decide di andare via.

Solo 200 metri la separano dalla riva, poco più di qualche bracciata per una nuotatrice esperta.

Peccato che, di mezzo, ci si metta un enorme squalo che sembra non avere alcuna intenzione di permetterle di raggiungere la spiaggia.

Il conflitto è più o meno sempre quello tra l’uomo e una natura che ci tiene a rimanere incontaminata, ma ciò che rende il film più godibile rispetto alla media è la scelta di non porre mai chi guarda in una posizione voyeuristica rispetto all’azione, bensì di stringere così tanto la macchina da presa sulla paura della protagonista e sulle sue ferite, da catapultare lo spettatore dall’altro lato della fatidica quarta parete.

 

Eccoci quindi sullo stesso scoglio su cui la protagonista ingaggia la sua lotta per la sopravvivenza e la relativa vicinanza alla riva (150 metri appena) non fa che peggiorare il senso di impotenza di fronte a un ostacolo che è comunque impossibile aggirare sperando di uscirne illesi.

Blake Lively - unica protagonista sullo schermo insieme al suo personale “Wilson”, qui rappresentato da un gabbiano ferito - sopperisce alle naturali carenze espressive con un’interpretazione di notevole generosità fisica.

Ma è la natura stessa del film a spogliarla (letteralmente) di qualsiasi sovrastruttura recitativa per renderla puro corpo filmico in balìa degli eventi.

Poi sì, ci sono almeno un paio di trovate à la MacGyver che oltrepassano il labile confine tra la semplice sospensione dell’incredulità e l’inverosimile più totale, ma sono ben poca cosa rispetto a uno script così abile nel disseminare sadismo visivo (la Lively che si applica dei punti di sutura utilizzando un ciondolo come ago è la declinazione moderna e al femminile del primo Rambo) e una serie di vie di fuga mostrate e poi puntualmente frustrate dall’impossibilità di sfruttarle.

Peccato solo che la distribuzione italiana abbia fatto slittare l’uscita di questo Paradise Beach – Dentro l’incubo fino a estate ormai quasi conclusa.

Sarebbe stato un summer movie perfetto.

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