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Regia di Michele Placido vedi scheda film

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La recensione su 7 minuti

di MarioC
7 stelle

Pare di vederlo Michele Placido mentre, durante la stesura del copione con Stefano Massini, l’autore del testo teatrale di riferimento, si infervora. Perché al regista, al di là di una filmografia caotica, forse illogica, talvolta dagli esiti più che incerti (pensiamo soltanto all’imbarazzante La scelta), va riconosciuta la sincerità di fondo, la capacità di osare un cinema di impianto nobilmente civile, in un territorio filmico funestato dagli effetti corrivi, dalle strizzatine d’occhio indifferenti e veloci.

Tratto da una storia vera, 7 minuti è il resoconto minuzioso e drammatico di una rivolta che monta piano, passando per le forche caudine delle spinosità dei caratteri e per la presa d’atto della necessità di non cedere nemmeno una minuscola parte del proprio corredo di dignità. La lotta per l’affermazione di un principio, già difficile per definizione, assume gradazioni di difficoltà inimmaginabili quando venga condotta all’interno di una fabbrica, da donne alle prese con la aporia incomponibile tra economia domestica e tempi di lavoro, sospese tra tentazioni al compromesso ed intelligenza di una inalienabile integrità etica e personale.

 

Per quanto la progressione drammatica degli eventi che il film squaderna sia ampiamente prevedibile, nonché a volta stemperata, e come silenziata, da scelte che puntano troppo sulla spettacolarizzazione e sulla rappresentazione manichea dei singoli vissuti (le straniere e/o extracomunitarie che hanno alle spalle una vita difficile che le ha rese più sagge e più inclini a perdere qualcosa in funzione di assicurazione sulla comodità senza scosse del futuro; l’operaia giovane manipolabile con la forza dell’esperienza altrui ed a cui verrà affidato il peso e l’onere della scelta definitiva e spartiacque), 7 minuti procede senza indugi lungo la strada che ha scelto di percorrere: innalzare lodi e preci al coraggio civile, alla rinuncia alla arrendevolezza, intonare con dolente partecipazione il coro, pur irto di voci dissonanti, di un gruppo di donne chiamate ad una scelta da cui non dipende, forse, il proprio avvenire, ma soltanto il non irrilevante concetto di sé e della propria irriducibilità agli altrui (dei padroni) diktat, esposti ed occultati sotto forma di mera richiesta.

 

 

Il risultato finale coglie nel segno e non lascia indifferenti: lo stile registico di Placido sceglie gli excursus rapidi e nervosi, gli svolazzi su quel luogo di lavoro/fabbrica di lercia mediocrità, di soffocante accoglienza, benchè qualche effetto, cui già si accennava, rechi in sé una eccessiva esigenza espressionistica (alcuni montaggi paralleli, in particolare quello nel finale). Ma al regista interessa soprattutto la composizione di un efficacissimo quadro di caratteri, nelle cui diversità (e nel difficile se non impossibile obiettivo di giungere alla loro finale riduzione ad unità) sta il fucro dell’opera, il suo fine, la sua essenza. Quadro di caratteri reso molto efficacemente da un gruppo di attrici diversamente perfette, ciascuna per la sua parte. Dalle meno note alle sempre calibrate Ambra Angiolini, Violante Placido, Cristiana Capotondi e Maria Nazionale (nel ruolo ingrato della napoletana aggressiva per nascita e tuttavia piegata da microtragedie familiari in grado di incidere a fondo sul grado di comprensione delle altrui ragioni); fino alla sorpresa Fiorella Mannoia, ruvida romana dal nascosto ed ispido cuore grande, ed alla garanzia Ottavia Piccolo. La dolente forza dell’esperienza, la saggezza che crede nel dialogo, la ragione che porta a ragionare: prerogative che l’attrice impasta ed esprime con la recitazione quieta degli attori di un tempo. Cameo per Michele Placido ed i suoi due fratelli: in tempi di atroce e provinciale familismo, leggiamoci un po’ di sana ed inconsueta (auto)ironia.

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