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Jack Reacher: Punto di non ritorno

Regia di Edward Zwick vedi scheda film

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La recensione su Jack Reacher: Punto di non ritorno

di lussemburgo
5 stelle

È poco più di una puntata extra-large di NCIS la seconda pellicola dedicata al personaggio creato da Lee Child, sorta di cavaliere solitario senza dimora, itinerante negli Stati Uniti a raddrizzare torti e indagare sul marcio. In questo caso riemerge il suo passato nell’esercito, carriera abbandonata per insanabili dissidi caratteriali e un certo estro anticonformistico da indefesso maverick. Ma l’ambientazione militare (o paramilitare) e i luoghi dell’azione, tra Washington e New Orleans (oltre a un carcere e a un paio di basi militari), riporta proprio alla mente la serie con Mark Harmon (attore che ha anche una vaga somiglianza con Cruise, per quanto questo si rifiuti di invecchiare), nonché i suoi spin-off (NCIS: New Orleans) o predecessori sull’avvocatura militare (JAG, serie da cui proviene tutta la galassia NCIS, a sua volta ispirata a Codice d’onore, proprio con Cruise). E della serialità procedurale il film mantiene i difetti più evidenti, con una fotografia artificiale, una pallida regia didascalica e funzionale, un andamento ciclico con conclusione interna all’episodio e, soprattutto, un casting che fa interpretare i ruoli minori a figuri già evidentemente caratterizzati (peraltro di provenienza televisiva), sì da sospendere qualsiasi suspense o sorpresa tanto la natura del personaggio è inscritta nei volti

Poco rimane del film, goffo tentavo di serializzazione ad emulare Mission: Impossible in minore, se non una certa precisione interpretativa di Cruise legata a piccoli gesti e occhiate, una qualità sprecata in una pellicola in cui sembra perso e agire per inerzia, trascinato dagli eventi e dalle circostanze e con poca convinzione, se non quel Macguffin della progenitura, sospetto o timore che, ovviamente, rientra prima della conclusione. Inoltre, pur iscrivendosi nel canone del film d’azione, Jack Reacher 2 riduce le figure dell’action alla scazzottata con fuga, con gli eroi sempre trafelati e di corsa tra una rissa e uno scontro a fuoco, con stasi solo in improbabili ammiccamenti pseudo-familiari.

Questo film, assieme alla discutibile Mummia col correlato Dark Universe, sembra rappresentare un tentativo per Tom Cruise di inserirsi nel filone mainstream hollywoodiano di inanellare film concatenati, un progetto discutibile che mette in ombra il successo del suo personale franchise di Mission: Impossible, ormai affermato e ancora vitale, per inseguire vaghi sogni di giovinezza cinematografica all’interno di un’industria incapace di forgiare novità e prototipi per assecondare stereotipi e i gusti più diffusi (con le dovute eccezioni, Marvel per esempio). Ironicamente, questo atteggiamento contraddice di fatto il senso stesso del ruolo interpretato da Cruise nel film, l’eterno ribelle pronto a lottare con i propri meriti e limitati mezzi per la verità e la giustizia, proprio mentre il “punto di non ritorno” dell’asservimento alla massa produttiva e all’inclusione nella prassi più caduca si sta minacciosamente approssimando per un attore che, pur al centro della popolarità più diffusa e di numerosi successi puramente commerciali, non disdegnava saltuarie scelte dissonanti e più ardue, dedicandosi anima e corpo ad ogni interpretazione.

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