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Tiramisù

Regia di Fabio De Luigi vedi scheda film

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La recensione su Tiramisù

di MarioC
2 stelle

Non è un destino allegro essere schiavo di una maschera, la propria. Nemmeno è sorte gloriosa quella di perpetuare tic, espressioni, inconsistenze caratteriali in un pasticcio di finta autorialità, in un tripudio di trovate da scuola dell’obbligo, product placements assortiti, acccolita di Film Commissions a pioggia. La maschera è quella di Fabio De Luigi, la trovata è dello stesso FDL, che si inventa regista, incassa il riconoscimento di interesse culturale alla sua opera prima (i nastrini che il cinema italiano dispensa con assoluta nonchalance sono dazio da pagare al provincialismo, alla miopia, o ad una aurea mediocritas che rende incapace ogni distinzione?), ed impone allo spettatore un repertorio da Medioman precocemente invecchiato (anzi forse nato vecchio), quello stesso che, funzionante in un contesto di totale cazzeggio e consapevole leggerezza, si svela liso e anemico quando reclami le stimmate del respiro lungo.

 

 

Tiramisù è questo: un prodotto di rara inconsistenza, un bailamme di battute che non strappano risate e nemmeno tristezza, tanto sono perse in una fondamentalmente innocua autoreferenzialità, una recita da fine anno scolastico in cui il più bravo del lotto si ostina a ripetere la propria parte, con forza ormai calante, e con talento che pare davvero inutilmente sottolineabile. Se un film comico italiano si apre, letteralmente, con la barzelletta della pillola contro la perdita della memoria che l’assuntore non ricorda da quanto tempo ingurgita, vuol proprio dire che la scrittura e la stesura hanno sofferto di una sindrome da napalm della inventiva: in altre parole, il regista/attore si è accontentato di calare in tavola un menù di rifritture servite in piatti con fondo di déjà vu. In uno di questi piatti c’è anche il dolce del titolo: espediente asmatico e bamboccesco, che inutilmente si tenta di spacciare quale MacGuffin in grado di tirare le fila di una storia che sembra letteralmente accartocciarsi su se stessa. Spezie di condimento sono (dovrebbero essere, vorrebbero essere): le menate sulle virtù taumaturgiche della volontà, appena adulterata dal caso (nel contesto un caso iperglicemico, come il finale); la satira all’acqua di rosa sugli ambienti lavorativi; la nemmeno troppa larvata canzone allegra innalzata all’arte di arrangiarsi che anche un maldestro può, sino a prova contraria, e sino a che pavesini, caffè e latte reggano, praticare; una spruzzatina di erotismo in odore di gratuità, affidato a quella Giulia Bevilacqua che ha di recente scoperto una vena sexy notevole ma in tal caso davvero raffazzonata ed inutile ai fini del minutaggio; un finale, si diceva, melenso come vuole il manuale Cencelli del film anema e core. Protagonisti e comprimari un po’ persi: detto di De Luigi (certo bravo, ma sale la voglia matta di vederlo in un ruolo finalmente drammatico, per quanto forte sia il rischio flop totale) e della Bevilacqua, resta la Puccini che è attrice sempre un po’ così, non di rado smarrita in territori filmici sbagliati: occhi bellissimi, dizione perfettibile, noia che il cachet di ordinanza non riesce a simulare. C'è anche Pippo Franco, in un ruolo, pur stancamente malinconico, che esalta quelle potenzialità espressive che il volto invecchiato, dunque meno riconoscibile, dimostra di poter squadernare.  Infine Angelo Duro, esordiente al cinema: ulteriore prova che il successo e la buona tenuta in un contesto di televisione satirica non danno patenti da attore vero, piuttosto servendo ad eternare virtù, ma soprattutto vezzi e vizi, di una maschera/ritratto che nemmeno un Dorian Gray del cinema accetterebbe di tenere in soffitta.

 

 

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