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L'uomo che vide l'infinito

Regia di Matt Brown vedi scheda film

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La recensione su L'uomo che vide l'infinito

di M Valdemar
4 stelle

 

locandina

L'uomo che vide l'infinito (2015): locandina



Come iena famelica s'avventa su appetitose carcasse così il cinema mainstream va alla caccia spasmodica di "storie vere" per imbastire il solito quadretto lezioso e canonico con il quale conquistare platee (nonché grossi pezzi di critica) e scaldare cuori.
Infallibile modus operandi di recente virato - come moda comanda - anche sul mondo della matematica (sì, i titoli acchiappa-premi di un paio di stagioni fa, i più immediati), abitato effettivamente da personaggi eterogenei che ben si prestano alle più classiche dinamiche sentimental-narrative in ambito biopic popolare.
Non sfugge alla regola L'uomo che vide l'infinito, produzione inglese - specialisti nel remunerativo settore - che ricalca pedissequamente ogni passo del sacro manuale dei vecchi marpioni fabbricanti di emozioni da catena di montaggio.
Una volta scovato l'"incredibile" personaggio dall'incredibile percorso di vita applicare l'inossidabile formula vincente è un gioco da ragazzi neanche tanto svegli con equazioni, partizioni, tabelline del tre.
L'unico merito del film, inevitabile, casuale, è ovviamente quello di far conoscere una figura sconosciuta - perlomeno ai profani dei numeri - quale è Srinivasa Ramanujan, matematico indiano autodidatta che, tra il 1914 e il 1919 visse e condusse i suoi studi al Trinity College di Cambridge, sconvolgendo il paludatissimo ambiente accademico con il suo approccio originale alla materia e la capacità di vedere oltre - ma anche con la sua misticità (teoremi e formule gli sarebbero suggeriti direttamente dalla dea Namagiri).
Il materiale, quindi, come si può facilmente intuire, c'è tutto: essere e sentirsi straniero in terra lontana, il razzismo, l'ostilità aperta e dichiarata dei baroni universitari, l'eterno dibattito spiritualità vs. scienza, le differenze di cultura e cibo, la lontananza dagli affetti, la prima guerra mondiale, la malattia, i rapporti sociali problematici. Anche ed innanzitutto con chi dovrebbe essere "amico", ovvero il mentore G. H. Hardy (ovvero Jeremy Irons, naturalmente ineccepibile, naturalmente stucchevole), che lo costringe a dimostrare, continuamente, e con modi poco amichevoli, le sue "intuizioni" (e qui sta tutta la lettura di L'uomo che vide l'infinito).
Peccato che il film soffra di quello stesso intransigente accademismo che racconta e vorrebbe criticare: nemmeno per un istante nemmeno per caso, si va oltre la mera manierata rappresentazione superficiale di temi, contenuti, dati biografici, annotazioni cronachistiche, luoghi comuni, motivi ricorrenti (non mancano né l'introduttiva voce off né le informative didascalie finali), risvolti sentimentali (il rapporto epistolare contrastato con la moglie: una soap).
Un ritratto calligrafico prevedibile e convenzionale - anche nel riproporre un'estetica formalmente educata (contrapposizioni cartolinesche comprese: i grigi inglesi e i colori dell'India), musichette enfatiche tese a sottolineare la retorica imperante, interpretazioni inappuntabili e "sentite" (il bravo Dev Patel è il protagonista) -, che non aggiunge nulla ai tanti prodotti simili.

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