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L'uomo che vide l'infinito

Regia di Matt Brown vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su L'uomo che vide l'infinito

di miss brown
4 stelle

Considerato uno dei massimi matematici della storia, Srinivasa Ramanujan era un giovane e poverissimo indiano autodidatta che riuscì a portare le sue scoperte a Cambridge. Idea interessante per un biopic convenzionale, televisivo, ben interpretato ma superficiale e scritto senza un grammo di passione. Deludente.

Nato nel 1887 nel Tamil Nadu (nel sud dell'India, sotto occupazione coloniale britannica), Srinivasa Ramanujan era un tamil di casta brahamina ma di famiglia poverissima. Del tutto privo di formazione accademica ufficiale, era un ragazzo prodigio (a 11 anni era già in grado di svolgere i programmi del college) e geniale matematico dilettante. Senza nemmeno il diploma superiore, ridotto a lavorare come contabile, pur apprezzatissimo, alla Ragioneria di Stato di Madras, continuò i suoi studi in solitudine. Conscio del valore delle sue ricerche, spedì a matematici di mezzo mondo lettere con la soluzione di teoremi di incredibile complessità, ma fu del tutto ignorato. Finché non fece sobbalzare sulla riverita sedia che occupava al Trinity College il professor Godfrey Harold Hardy, uno dei più brillanti matematici dell'epoca, che gli procurò una borsa di studio. Il 26enne Ramanujan, nonostante le proteste di madre e moglie (che aveva sposato, come d'uso, a 9 anni), consultò accuratamente prima del viaggio i suoi piani astrologici ed approdò all'Università di Cambridge nel 1913. Si mise al lavoro e da subito si scontrò, proprio a causa della sua anarchica genialità, con le regole e la necessità di ordine e formale disciplina che il tradizionale metodo accademico richiede; il suo approccio istintivo e non convenzionale alla matematica non era compreso. Scoppiò la Prima Guerra Mondiale, che non toccò più di tanto la sua ascetica quotidianità: ma ne causò probabilmente la morte. Indù strettamente praticante e vegetariano, la scarsità di verdure fresche a causa del razionamento, unita al rigido clima inglese, ne provocò un rapido deperimento che sfociò in tubercolosi, allora praticamente incurabile. Alla fine della guerra il suo lavoro fu finalmente riconosciuto anche dai più settari e razzisti baroni del mondo accademico: divenne membro della Royal Society e fu nominato docente al Trinity. Nel 1919 andò in visita in India, con la promessa di tornare ad insegnare l'anno successivo; ma morì pochi mesi dopo il suo ritorno, a 33 anni.

 

Mi rendo perfettamente conto che fare un film su di un genio della matematica non è affatto facile. In più per tutti i biopic la scelta comune, e in verità alquanto cinica, è trovare un personaggio in qualche modo "interessante", meglio ancora se "strano", perfetto se "freak".

E' andata bene - cinematograficamente parlando - con John Nash, interpretato da Russell Crowe in A BEAUTIFUL MIND (4 Oscar 2002): il grande matematico ed economista era purtroppo schizofrenico, e al centro della trama ci sono le sue allucinazioni (un amico e un nemico immaginari interpretati da Paul Bettany e Ed Harris). Il regista Ron Howard non si è nemmeno sognato di intrattenerci con pistolotti sulle "soluzioni eleganti che trovò a problemi complessi, come quelli legati all'immersione delle varietà algebriche, alle equazioni differenziali paraboliche, alle derivate parziali e alla meccanica quantistica" (cito da Wikipedia).
Stessa cosa per THE IMITATION GAME (2014), in cui l'omosessualità di Alan Turing (problema bello grosso nell'Inghilterra degli anni 40-50) viene ipocritamente appena sfiorata, mentre si punta sul presunto caratteraccio del padre dell'informatica, qui esagerato al limite del disturbo mentale (l'interpretazione di Benedict Cumberbatch è un catalogo completo di mossette ed espressioni caricatissime). La tesi del film è "come i matematici, anche se mezzi matti, batterono i nazisti alla faccia dei militari incompetenti". Anche qui le spiegazioni sulle teorie di Turing vengono mostrate giusto con qualche schemino alla lavagna, in quanto capire perché la sua macchina funzionasse, per lo spettatore medio è del tutto ininfluente ai fini della trama.

 

 

Si gira un film per raccontare una storia. Se è un film biografico i casi sono due: c'è un personaggio famoso da mostrare con un punto di vista diverso dal solito; oppure un personaggio sconosciuto ai più ma meritevole di essere portato all'attenzione del pubblico.

E' quest'ultimo il caso di Srinavasa Ramanujan, noto esclusivamente nel ristretto mondo dei matematici: una scritta prima dei titoli di coda ci informa che il suo lavoro è ancora fondamentale, dopo un secolo, per lo studio dei buchi neri - robetta semplice, insomma. Non lo dico in senso ironico, è quello che devono aver pensato gli sceneggiatori, che in più scene di parecchi minuti ci intrattengono con dialoghi strettamente tecnici di cui lo spettatore medio (mi ci metto anch'io) perde il filo dopo 10 secondi. Cito ancora da Wikipedia: "Lavorò principalmente sulla teoria analitica dei numeri ed è noto per molte formule di sommatorie che coinvolgono costanti come il ? (pigreco) e i numeri primi. Produsse un'espressione asintotica per la funzione di partizione. Compì notevoli progressi e scoperte nelle aree relative a funzioni gamma, forme modulari, serie divergenti, serie ipergenetiche." Ehe???


La sceneggiatura, oltre a questa linea narrativa, ne segue altre due: la prima è, giusto accennata mentre meritava maggiore approfondimento, la vita quotidiana a Cambridge, fortezza della cultura che non si fa penetrare da quel che succede all'esterno, fino a quando i dormitori, spopolati degli studenti al fronte, vengono adattati ad ospedale, coi feriti ospitati persino in tende sui campi da cricket. Intanto intellettuali pacifisti come Bertrand Russell, e in seguito anche il suo amico prof. Hardy, vengono allontanati dall'insegnamento perché scomodi (migreranno a Oxford). 
Con l'ultima linea hanno deciso di darci dentro col pittoresco: via allora con la madre superstiziosa e dispotica, con la moglie (naturalmente bellissima) completamente analfabeta e infelice, oppressa com'è dalla suocera che le nasconde le lettere del marito; e che si rifugia - sitar in sottofondo, in mancanza di violini - nell'ombroso cortile del tempio in cui restano tracce di numeri scritti col gesso sul pavimento che Ramanujan usava come lavagna per i suoi calcoli (ma, a Madras non piove mai?). E il povero ragazzo solo e nostalgico, vittima di bulli razzisti, che batte i denti nella gelida stanza del dormitorio (è finita la legna), esegue i riti mattutini e serali di preghiera davanti alle statuette degli dei indù e si fa rimbrottare da un professore per un tatuaggio di henné sulla fronte.


Tratto dalla buona biografia del 1991 L’uomo che vide l’infinito – La vita breve di Srinivasa Ramanujan, genio della matematica di Robert Kanigel, ne è uscito qualcosa che ricorda il peggior Ivory, un film slegato, manierato e di superficialità televisiva. Ad esempio non è per nulla approfondito il conflitto fra fede e religione. Il devoto Ramamujan, che sosteneva che teoremi e formule gli erano suggeriti dalla dea Namagiri, dice al totalmente ateo Hardy: "Tu credi in Dio, Mr. Hardy. Solo che pensi di non piacergli." E una battuta del genere è buttata via con noncuranza, in mezzo a secchiate di banalità e litigi tra professori che neanche le comari al mercato.

Una cosa che mi ha molto infastidito: per interpretare al cinema un personaggio inglese ingaggereste, ad esempio, Banderas? La risposta è NO! Invece è quello che è stato fatto qui. Ramanujan era un tamil scurissimo e tracagnotto, ed è interpretato dal bravissimo, certo, ma alto e snello e carino e giusto un po' "abbronzato" Dev Patel, chiamato a sostituire l'attore tamil scelto in origine, somigliantissimo all'originale, ma col difetto di essere quasi nero e sconosciuto fuori dall'india. Potrebbe non essere un problema, ma in questo caso è l'ennesimo sintomo dell'approssimazione con cui è stato affrontata tutto il progetto. Spiace per la buona partecipazione di tutti gli interpreti, oltre a Dev Patel ci sono Jeremy Irons (il testardo e carismatico prof. Hardy), Toby Jones (il gentile ed entusiasta prof. Littlewood), Jeremy Northam (Bertrand Russell). Son qui a chiedermi perché abbiano scomodato Stephen Frey per 2 inquadrature di pochi secondi e 2 battute l'una per un ruolo (lo scettico capufficio inglese a Madras) che avrebbe potuto interpretare anche il mio portinaio.


Diretto svogliatamente da Matt Brown, è un compitino pedante e noiosetto, per nulla coinvolgente, scritto senza un grammo di passione, che rincorre tutti i possibili stereotipi e che non invoglierà neanche uno spettatore, non dico ad iscriversi alla facoltà di matematica, ma nemmeno ad approfondire uno dei tanti importanti argomenti appena sfiorati.

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