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La fratellanza

Regia di Ric Roman Waugh vedi scheda film

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M Valdemar

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La recensione su La fratellanza

di M Valdemar
5 stelle

 

locandina

La fratellanza (2017): locandina

 

 

«Il trono ha un nuovo re»: la frase di lancio più gettonata del film punta tutto – anche in barba (e baffoni) agli spoiler – all'appartenenza del protagonista, Nikolaj Coster-Waldau, alla “fratellanza” gameofthronesiana.
Il richiamo è d'obbligo: (come) riuscirà lo zerbino della dominatrice Cersei a tramutarsi in (pare) boss della combriccola dei simpatici compagnoni ariani?
Allo stesso modo, più o meno, “dentro” l'opera quinta diretta dall'ex stuntman Ric Roman Waugh (invero un po' ossessionato/ingabbiato dai carcerari …), il tema principe è la (classicissima) trasformazione del tipico uomo innocente, padre di famiglia ben inserito nel mondo del lavoro e nella società, in criminale risoluto e cattivo.
Orbene, da un assunto che di originale né soltanto vagamente foriero di sviluppi che non siano in larga parte intuibili non ha nulla, La fratellanza (in originale Shot Caller) “gioca” facile sull'apparenza: il fisico – massa muscolare, baffoni, tatuaggi che “raccontano” l'evoluzione – porta i segni del cambiamento, mentre la materia narrativa – tra flashback didascalici, svolte che in realtà conducono sempre sulla stessa strada dritta, sbarre dialogiche e scene “forti” schematiche e risapute, e ore d'aria “intellettuali” (i riferimenti letterari, le frasi-sentenza) – plasma il portato teorico ed emotivo.
Una scrittura – dello stesso regista – che, sebbene non presenti lacune rilevanti, non osa né sembra volerlo mai veramente fare, tesa a consolidare un apparato massiccio e senza vie d'uscita come una fortezza carceraria: difficile, impossibile, evadere dalla confortevole sicurezza tombale di un impianto crime thriller d'ambientazione carceraria (tale anche quando si è “fuori”) sì solido ma pure privo di asperità alcuna e sostanzialmente (e formalmente) povero, disadorno, soprattutto nella definizione dei personaggi (che rimangono a uno stato larvale, unicamente funzionale).
Sottotesti, sfumature, idee, sensibilità nello sguardo, non abitano qui: il film lo fanno i dettagli cruenti e gli ammazzamenti senza tanti complimenti – che donano certo un'aura di cruda “autenticità” ma è tutta roba già vista ed evacuata –, le stitiche figure di contorno (la guardia carceraria che «ha capito» come funzionano le cose, i sottoposti stolidi, i capi illuminati e feroci, la mogliettina che non fa che piangere e aspettare, il poliziotto “dall'altra parte” pronto a tutto), la faccia ora disperata ora tormentata ora feroce ora impaurita di Coster-Waldau.
Come fosse a comando: la sua è un'interpretazione non disprezzabile però meccanica e poco ispirata. Poteva andare peggio (l'industria cinematografica è un canile a cielo aperto). Ma pure meglio se, per dire, il ruolo del protagonista fosse stato affidato al bravo, sempre sottoutilizzato Jon Bernthal, qui ridotto a fare il solito sfigato.
Messa in scena concreta e coesa, genuinamente scolastica (nessuna sequenza da menzionare) e un'equilibrata gestione del ritmo, che sa evitare tempi morti e cadute di tono, completano il pacchetto di una visione che in fondo poco chiede e poco dà.
Ai titoli di coda scatta, automatica e senza rimorsi, la facile fuga dalla sala.

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