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Ma Loute

Regia di Bruno Dumont vedi scheda film

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Utente rimosso (SillyWalter)

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La recensione su Ma Loute

di Utente rimosso (SillyWalter)
7 stelle

        Primi vagiti del 1900. L'ineffabilmente assurda famiglia dei Van Peteghem raggiunge per le vacanze estive la propria "villa al mare" vicino a Calais, un maniero in stile egizio-tolemaico (sic) che domina una pittoresca baia di pescatori da un'altura. Tra di loro c'è anche Billie (pronuncia Billì), nipote del padrone di casa che non si sa se sia una ragazza che si traveste da ragazzo o un ragazzo che si traveste da ragazza. Nei dintorni, intanto, un ispettore grassissimo rotola per le dune sabbiose insieme al suo assistente nel tentativo di investigare su alcuni turisti spariti nel nulla. I turisti se li sono mangiati i Bufort, famiglia autoctona di raccoglitori di mitili e traghettatori di turisti (a volte in braccio, a volte in barca), oltre che cannibali seriali, per quanto il vecchio Bufort sia un ex marinaio famoso per aver salvato molte vite sottratte alla furia dei marosi. Complici soprattutto le traghettate in braccio, scoppia un tenero amorazzo estivo tra Billie e Ma Loute, silenzioso primogenito dei Bufort senza alcun pregio apparente se non l'essere un traghettatore con le orecchie a sventola e il cappello da marinaretto. 

 

 

        Sulle prime, più che la polemica antinobiliare o antiborghese, a dare un certo retrogusto interessante a MA LOUTE è questa acidofila identificazione della nobiltà tarata con la nobile famiglia degli attori di professione, laddove i traghettatori cannibali e i pescatori sono invece attori non professionisti e laddove, soprattutto, Dumont era noto fino all'altro giorno per affidarsi quasi esclusivamente ad attori non professionisti. Questi Van Peteghem sono forse anche da considerare una grottesca fantasia di attori enfatici che irrompe una tantum nell'austero universo Dumontiano? (L'istinto è quello di farli fuori, ma visto che sono solo di passaggio...) Ovviamente, però, non c'è cattiveria (quantomeno verso gli attori). Come potrebbe? È dall'interazione tra i "divi" che il film ottiene il meglio. Da alcuni momenti irripetibili che sembrano fatti apposta per mettere a disagio lo spettatore, tra movenze goffe e sbilenche, gesti incerti che non arrivano in fondo, tempismi costantemente scoordinati, tic e pause estenuate (per non parlare dei rumori noiosi, ad esempio gli scricchiolii dell'ispettore...). È una densità del tessuto recitativo non comune. Sembra che ogni loro movimento fisico e di pensiero si sia complicato all'inverosimile, come se una volta terminate le situazioni e le motivazioni per cui applicare insulsi e obsoleti codici di comportamento, ogni rampollo di questa nobile stirpe si fosse dovuto inventare un proprio universo di ostacoli invisibili per dar sfogo a queste attitudini ed energie. È l'eredità deformante dell'aristocrazia e l'espressione fisica dell'estraneità dei Van Peteghem a quell'epoca e a quel luogo. Ad esempio: la forma non impone più posture rigorose e loro sono perennemente storti o mossi da nevrosi; se il loro linguaggio è simile a quello altrui i Van Peteghem non possono però non perdersi in formalismi, ecolalie e sciocchezze verbali come il "ouissekì" al posto di whisky ripetuto da un compiaciuto Luchini o le prese in giro della Binoche alla pronuncia di Ma Loute; poi l'impossibile semplicità nel governare la casa: "Non così, così la sollevi la polvere, devi eliminarla..."; e così anche l'affettazione del gusto per il sublime e il pittoresco e i lavoratori come spettacolo di bellezza assoluta etc etc. 

 

 

        Alla ricetta di Dumont credo che sia tutto sommato ancora preferibile la ricetta di Swift di mangiare i figli dei poveri. Perché quando ti mangi un Van Peteghem non sai mai cosa ti metti in corpo, è carne geneticamente tarata da malattie mentali, indeterminatezza sessuale e dalle tipiche deformità delle stirpi nobiliari che per lustri hanno continuato a incrociare consanguinei (e al cinema sembra tutto facile ma quando a cena da amici ti servono un Emanuele Filiberto di Savoia sfido chiunque a non cercare il cane di casa sotto il tavolo). 

        "Il pasto nudo è l'istante, raggelato, in cui si vede quello che c'è sulla forchetta." ~ William Burroughs

        Se i "profiler" criminali delle serie TV ci hanno insegnato qualcosa è che è più difficile uccidere e macellare ciò per cui provi empatia. E questi Van Peteghem, dopo averli osservati da vicino per tutto il film, devo dire che non possono che starmi simpatici. Soprattutto il capofamiglia Luchini che mi ricorda Sordi ne I NUOVI MOSTRI (episodio della Rolls Royce bianca), ma anche la Binoche è strana forte per essere la Binoche (splendide smorfie). Non per niente lo stesso Ma Loute nel film ci dimostra che una volta che la carne diventa persona è poi dura farla tornare cibo. Quindi non so se mi convince questa proposta Dumontiana di giustizia sociale. Perché nel frattempo mi ha fatto venir voglia di salvare i Van Peteghem. Mentre vorrei stare dalla parte di chi abita fuori dalle mura del castello. Inoltre sia ridicolizzarli che mangiarli mi sembrerebbe troppo ("Non si gioca col cibo", come dice anche mamma Brufort ai figli più piccoli). E poi qui se c'è una famiglia che si avvicina all'animalità selvaggi(n)a sono proprio i Brufort, e non perché sono cannibali ma perché si fondono e si confondono col paesaggio. E non sembrano nè amici dell'uomo nè particolarmente intelligenti. Tra l'assaggiare un Brufort e l'assaggiare un delfino non c'è praticamente partita... Quindi, direi, che un po' mi sono perso nei filacci del film... Quel che mi manca è un motore, un obiettivo, un nemico, una squadra per cui tifare nelle pause tra una gag e l'altra. Anche se però si ghigna. Non si ride: si ghigna. 

 

 

"Anche su quale fosse la parte migliore - il cosiddetto "boccone del prete" - c'era disparità di vedute. Per i Babufuk e le altre tribù del Niger erano una leccornia le palme della mano; per i Warega i piedi e gli intestini; per i nativi della Nuova Guinea il cervello; per gli aborigeni del fiume Herbert il grasso intorno ai reni, considerato un cibo leggero e rinforzante; per gli antichi Tartari, a detta di John de Mandeville, le orecchie condite con aceto; per gli indigeni del Nissan i lombi; per i Wasongola e numerose altre popolazioni antropofaghe le mammelle femminili. Di queste pare fossero avidi anche gli Unni che, stando ad Americo Scarlatti, serbavano per Attila le più tenere e delicate, quelle cioè delle fanciulle. Un paio di ragazze alla settimana, per consumarne solo le poppe, faceva macellare, nel suo piccolo, anche un capo di Aoba. Era opinione largamente diffusa che la carne più pregiata fosse proprio quella delle giovinette o, in mancanza, quella dei giovani schiavi castrati. I sovrani non si facevano mai mancare tagli pregiati di ragazze ingrassate allo scopo. Il re dei Baja non mangiava altro. Un capo degli Jaga, che ne andava ghiottissimo, ne sacrificò almeno un centinaio. I Bangala raccontavano la dolorosa storia di un loro re che, benché ricco sfondato, si era ridotto in miseria a furia di comprare tante graziose e grasse giovani femminucce per mangiarle. 

La preparazione della carne umana non si distingue necessariamente da quella di altri generi di carne. Possiamo, con un po' di fatica, estrapolare tre misere specialità: lo schiavo frollato per un giorno in acqua corrente, eviscerato e imbottito di banane, piatto tipico dei Bangala; la cottura in una buca scavata nel terreno e foderata di profumate foglie di kata, praticata dai Binbinga; l'affumicatura della carne umana da parte dei Mangbettu, dei Badinga, dei Bangala e altri ancora." (Il cannibalismo - Ewald Volhard) 

  

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