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Deepwater - Inferno sull'oceano

Regia di Peter Berg vedi scheda film

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La recensione su Deepwater - Inferno sull'oceano

di amandagriss
7 stelle

Alla seconda collaborazione dopo "Lone Survivor", pare proprio che Mark Wahlberg e Peter Berg abbiano stretto un vincente sodalizio, si spera longevo, ci si augura cinematograficamente prolifico

 

La piattaforma petrolifera come un campo di battaglia.

 

Calpestarne il suolo malfermo, viverci dentro, arrivare a penetrarne le oscure inabissate fauci, portare con sé la consapevolezza di muoversi come su di un terreno minato, abituarsi all’opprimente sensazione di trovarsi costantemente nella linea del fuoco nemico, fatto d’acciaio e cemento armato, essere preparati all’agguato imminente, provare a venirne fuori, a salvarsi insieme ai propri compagni di avventura, fratelli nella notte più nera della propria esistenza, condivisori di un egual destino.

Sono tutte sensazioni pressoché identiche a quelle provate da un soldato in guerra.

La sabbia che esplode sotto i piedi, la pressione fuori controllo del fondale trivellato che deflagra come un ordigno attivato con il lucido intento di non lasciare scampo, l’onda d’urto che ne deriva, sollevando e scagliando ovunque intorno a sé corpi inermi intrisi di fango con la medesima furia di una scheggia impazzita, l’incessante pioggia di materiale infuocato che perfora e squarcia la carne alla stessa maniera di una scarica di proiettili lanciata alla cieca.

Paura, rabbia, pianto, disperazione, feriti, morti.

Devastazione.

I sopravvissuti, come reduci di guerra, tornano a casa, nelle braccia sconvolte e compassionevoli delle loro famiglie, divorate dall’angoscia di conoscere i nomi dei caduti.

Lo spaesamento è lo stesso, lo stordimento anche, gli effetti post traumatici pure; le ferite sul volto e sul corpo marchieranno a vita la tragedia che hanno vissuto, ne accerteranno l’orrore visto, toccato e affrontato, testimonieranno l’esperienza della morte che miracolosamente li ha risparmiati, limitandosi a sfiorarli.

Gente ordinaria in luoghi e imprese straordinari, vite comuni immolate sull’altare della grandezza e dello strapotere (politico-economico) yankee -che passa anche e soprattutto per l’agognato oro nero- onnipresente in quelle bandiere a stelle e strisce che troneggiano, svolazzando integre, sulle loro teste mentre tutto intorno brucia.

Sono soldati che combattono le loro ardue, silenti battaglie in terra patria, per onorare e rendere orgogliosa l’America.

 

America, di quanto sangue versato, nei secoli dei secoli, è impregnata la tua storia, la tua terra libera?

 

È interessante comprendere la piega che il cinema dell’attento e capace regista Peter Berg, una volta (fascinoso) attore, sta prendendo nel corso degli anni. Basti guardare al precedente lungometraggio, il non trascurabile Lone Survivor, racconto bellico su di un’imboscata ai danni di un manipolo di marines in terra d’Afghanistan, per trovare delle affinità con questa sua ultima decorosa fatica, anch’essa, fondamentalmente, una storia di guerra, filmata in modo da suggerircelo in ogni passaggio o snodo cruciale della vicenda, sebbene a fare la differenza, almeno in superficie, siano le circostanze e le credibilissime location in pieno oceano, nel bel mezzo del nulla. Come un deserto del colore del cielo.

Peter Berg si fa portavoce di questi episodi/tasselli d’ordinaria tragicità che compongono il ritratto dell’America di oggi post 11 settembre (alcuni momenti del film rimandano, come un’ossessione che non vuol darsi pace, al disastro delle Twin Towers, colpevole di avere sventrato e colpito al cuore la Nazione, segnandola nel profondo), che non sempre hanno trovato il giusto spazio sui quotidiani locali ed esteri, e non sempre sono stati trattati dal punto di vista delle vittime, di esseri umani drammaticamente strappati alla vita nell’esercizio del proprio sacrosanto, per quanto sporco, mestiere.

In rappresentanza di tutti quelli che in uno dei tanti, troppi, gironi infernali disseminati sulla terra ci hanno lasciato la pelle.

L’interesse del regista è nell’esporre i fatti, nel condurre la vicenda sempre a misura d’uomo, nel dedicarsi principalmente a coloro che hanno vissuto di persona la terribile sciagura, come un atto dovuto, e lasciare in secondo piano l’importante danno ecologico che ne è conseguito.

A conferma, la volontà di far scorrere, sui titoli di coda, come già è avvenuto in Lone Survivor, i nomi degli uomini che da quel fuoco incrociato non ne sono più venuti fuori. E a seguire, le immagini di repertorio del processo, di coloro (incarnati in un convincente granitico Kurt Russell e nel sempre in parte Mark Wahlberg, che ha pure coprodotto il film) chiamati a testimoniare sul proprio operato e sulle proprie responsabilità nel disastro, dei milionari padroni della Horizon (ben resi da un mefistofelico John Malkovich) contro cui le accuse di omicidio colposo sono definitivamente cadute nel passato più recente, sentenza che ha lasciato non poco amaro in bocca, soprattutto quando un Paese intende incrementare le proprie ricchezze puntando sulle trivellazioni dei suoi fondali marini.

 

Deepwater Horizon è una robusta pellicola ad alto intrattenimento, in grado di distinguersi da simili (ma non uguali), soliti fumettoni da milioni di dollari trasudanti inverosimiglianza e traboccanti enfasi gratuita unita ad una stucchevole, tronfia retorica umnistico-patriottica.

Spettacolo assicurato certamente, ma rispettando la ferrea intenzione di rimanere ancorati alla realtà, di filmare, quasi documentare, seppure in chiave di finzione, cosa significhi vivere e lavorare per settimane, se non mesi, su questi colossi/torri di metallo che giganteggiano negli oceani.

Peter Berg ci offre l’occasione di saggiarne il vissuto di appena un giorno, il 20 aprile 2010, quello della catastrofe.

Ci siamo anche noi insieme agli azzeccati protagonisti, condividiamo i loro spazi ristetti, i lunghi freddi corridoi, lo sporco del fango estratto dal fecondo sottosuolo, la tensione sottopelle, il cameratismo, il bisogno di tenere a bada la paura, inseparabile compagna di viaggio, la necessità di non perdere il controllo quando la situazione si fa maledettamente critica, il senso di responsabilità nel salvaguardare se stessi e gli altri, la solidarietà che spinge ad aiutarsi l’un l’altro, a decidere di mettere a repentaglio la propria vita se questo vuol dire trarne in salvo molte altre.

 

Non è la divisa a renderci eroi, e nemmeno il ruolo che ricopriamo, ma ciò di cui siamo fatti.  

 

 

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