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Fai bei sogni

Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film

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La recensione su Fai bei sogni

di Peppe Comune
8 stelle

Torino, 1969. Massimo (Nicolò Cabras) è un bambino di 9 anni che ha con la madre (Barbara Ronchi) un rapporto di amorevole complicità. Ma questa muore all’improvviso, lasciando in Massimo un vuoto esistenziale impossibile da colmare. Non gli può bastare la presenza del padre (Guido Caprino), che non gli fa mancare niente, ma non sa dargli lo stesso amore della madre. Si sente solo Massimo e si sceglie come amico immaginario Belfagor, il personaggio della serie televisiva che lo aiuta nei momenti di bisogno. Cresce Massimo, diventa adolescente (Dario Dal Pero), le amicizie contratte alle scuole superiori lo aiutano a distrarsi dai pensieri bui. Una volta adulto (Valerio Mastandrea), diventa un giornalista stimato che si occupa di sport (seguendo il suo amato Torino) e di cronaca (inviato a Sarajevo durante la guerra in Jugoslavia). S’innamora di Elisa (Bérénice Bejo), una dottoressa conosciuta al pronto soccorso durante un attacco di tachicardia. Passano gli anni, ma il ricordo della madre scomparsa continua a rimanere vivo nella sua mente. Lo ossessiona, ma gli da anche riparo dalle insidie della vita.

 

Barbara Ronchi, Nicolò Cabras

Fai bei sogni (2016): Barbara Ronchi, Nicolò Cabras

 

Quando mi capita di vedere un film tratto da una storia autobiografica, non avendo letto il libro da cui il film appunto è tratto, viene istintivo chiedermi quali sono le situazioni ripetute identiche dal libro e dove, invece, il regista devia per fornire elementi altri rispetto alla traccia originaria. Più che di semplice curiosità (peraltro legittima se non scade nella morbosità), si tratta della volontà di conoscere con buona approssimazione dove e come l’autore del film è intervenuto per marcare con la sua personale poetica l’intero sviluppo della storia. Perché, spesso, non si tratta solo di giudicare come un testo letterario è stato trasportato al cinema, ma di verificare quali e quanti sono gli elementi  di originalità apportati dal regista e come questi rendono il film un ‘opera altra rispetto al testo da cui trae spunto. Io non ho letto il libro di Massimo Gramellini, ma è facile presumere che, come mostra il film, sia interamente percorso dal dramma insuperato della perdita della madre avvenuto quando il giornalista aveva appena 10 anni. Di converso, avendo visto quasi tutti i film di Marco Bellocchio, mi risulta abbastanza semplice capire il perché il regista ferrarese ha scelto questo libro per farci un film e, soprattutto, in che modo si è rapportato ad esso per far emergere il suo, personale, tocco d’autore. Seguendo la traccia originaria evidentemente, come sempre avviene in questi casi,   ma spostandosene quando lo si ritiene opportuno, per arricchire, senza mancare di rispetto.  Detto altrimenti, nella traslazione cinematografica di Marco Bellocchio, “Fai bei sogni” diventa una sorta di seduta psicanalitica fatta alla luce del sole.

Il film è un continuo flashback che ci porta avanti e indietro lungo tutta la vita di Massimo. Un ritornare sempre al punto di partenza, perché le manie, gli sbalzi emotivi, i ricordi, i pensieri più nascosti, insomma, ogni cosa che partecipa a comporre il tessuto cognitivo del Massimo adulto, trova la radice originaria  nella sua infanzia svuotata di senso perché tormentata dalla perdita prematura della madre. Da qui se ne ricava una sensazione che troviamo spesso nel cinema di Marco Bellocchio, quella cioè di oscillare tra la trattazione lucida della realtà e un viaggio visionario dentro i meandri della psiche umana. Il tema portante del film è il rapporto totalizzante che lega Massimo con la madre, dalla cui morte non ne scaturisce solo la scomparsa fisica della persona che più si ama, ma anche un vuoto esistenziale impossibile da colmare. Un vuoto fatto di assenze : di affetto, di complicità, di carezze, di  braccia che cercano protezione, di labbra che si cercano, di occhi che si amano. Un vuoto che il padre non sa e non può in alcun modo colmare, limitandosi a non far mancare nulla al ragazzo, a garantirgli un’educazione borghese impressa con rigore e disciplina. Bella e commovente è la sequenza in cui Massimo cerca tra le braccia della badante che gli è stata affidata un po’ di quell’affetto materno di cui tanto sente la mancanza. Affetto che la badante non può assolutamente dargli, e si sottrae a quelle braccia supplicanti, come per non soccombere sotto il peso di un compito così gravoso.

Bellocchio tratta la materia del rapporto  madre-figlio con estrema delicatezza, guardandolo da diversi punti di vista e sempre nella sua natura totalizzante ed "edipica", facendone quindi l’elemento che può arrivare a far sorgere amore per la vita in entrambi o a castrare la personalità di chi è la parte debole del rapporto, a guardare il mondo in faccia per quello che è o a nascondersi dietro i fantasmi della propria fantasia. Ci sono almeno quattro situazioni che tratteggiano “psicanaliticamente” questo tipo di rapporto : naturalmente, quello complice tra Massimo e la madre ; quello in cui la moglie è trascurata dal marito (Emmanuelle Davos nel film) e fa la madre che soffoca di attenzione il figlio (perché le mancano evidentemente) il quale, per contrasto, si diverte a trattarla male ; quello in cui il figlio arriva ad esternare odio per la madre (una Piera Degli Esposti in un sardonico cameo) a causa della troppa indifferenza che questa mostra nei suoi riguardi ; e l’ultimo, il più simbolico e anche il più tragicamente figlio della nostra contemporaneità, la madre uccisa dalla  guerra nella Sarajevo martoriata dalle bombe, con il piccolo figlio che sembra già essersi abituato al triste destino che l’attende.

Questo asse tematico ha consentito a Marco Bellocchio di mettere in evidenza alcuni degli aspetti che più hanno caratterizzato la sua carriera cinematografica. Innanzitutto, la famiglia, che come istituzione borghese  è stata spesso tratteggiata dall’autore ferrarese, non come il luogo dove si cerca un riparo sicuro dalle delusioni della vita, ma, al contrario, come il posto dove possono accentuarsi i malesseri interiori, l’inadeguatezza nello stare al mondo, i dissidi filiali, le incomprensioni coi propri simili, per troppo amore talvolta, ma soprattutto perché , ogni male che trova origine in seno alla famiglia, può avere un peso specifico notevole sullo sviluppo emotivo della persona (su tutti, valga l’esempio di “I pugni in tasca”, il folgorante esordio alla regia di Bellocchio). Il piccolo Massimo si ritrova catapultato dal rapporto orizzontale che aveva con la madre, fatto di sguardi complici e abbracci protettivi, a quello verticale instaurato col padre, improntato al più lineare rispetto dei ruoli tra chi educa e chi deve essere educato. Non basta la passione comune per la squadra del Torino (vissuta in maniera maniacale da Massimo, come a voler trovare in essa un riparo sicuro), e neanche le attenzioni che comunque gli riserva il padre, perché la mancanza della madre non può in alcun modo evitare il sorgere di scompensi emotivi nel ragazzo i quali, pur superati gradualmente con la crescita, non verranno mai dominati del tutto.

Poi c’è il ruolo della chiesa cattolica nella società, altro tema portante nel cinema di Marco Bellocchio (si pensi al magnifico “L’ora di religione”), intesa come un’istituzione totalmente slegata dalla realtà di tutti i giorni. Una scatola vuota che ha ridotto la vitalità della precettistica cristiana ad un accumulo di moniti e regole moralizzanti. Michele dimostra di avere rispetto per gli insegnanti incontrati durante la sua formazione scolastica (Roberto De Francesco prima e Roberto Herlitzka poi), ma non ricevendo risposte adeguate circa la reale sorte capitata alla madre, matura sin da subito un atteggiamento consepavolmente critico (bella e significativa la sequenza in cui, durante una preghiera, Massimo sostituisce le parole dell’omelia con quelle di una canzone che cantava sempre la madre). C’è uno strazio nella perdita di una persona amata che nessuna fede può aiutare a superare. Questo lo può capire anche un bambino.

Infine, c’è la componente onirica, spesso presente nel cinema di Bellocchio (si vedano (“Il principe di Homburg” e “Buongiorno notte”), a conferire al narrato tratti espliciti di surreale visionarietà. Il sogno inteso, non solo come momento di evasione dalla realtà, ma anche per costruirne un’altra più rispondente ai propri pensieri reconditi. Il Belfagor della serie televisiva, da personaggio nato per incutere paura, si trasforma in Massimo nella personificazione della salvezza, l’uomo guida venuto ad assorbire ogni sua paura, ad indicargli la strada più giusta da prendere. Anche quando sarà diventato un giornalista stimato, Massimo dimostrerà di non essersi mai distaccato del tutto da quella figura mitica, serbando per lei un dolce ricordo. Si ha bisogno di figure forti cui affidarsi nei momenti di massima debolezza emotiva, soprattutto quando non si smette mai di convivere con i traumi della propria esistenza.

É un Marco Bellocchio in ottima forma questo di “Fai bei sogni”, tornato a maneggiare con maestria alcuni dei temi tipici della sua poetica “dissacrante”. Ottima la scelta degli attori di contorno (Ronchi, Caprino, Bejo, Herlitzka, De Francesco), superlativi Nicolò Cabras (piacevolissima sorpresa) e Valerio Mastandrea (probabilmente alla sua migliore interpretazione), i poli estremi di un’esistenza problematica. Grande film, da vedere.  

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