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Un bacio e una pistola

Regia di Robert Aldrich vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Un bacio e una pistola

di luisasalvi
8 stelle

Il titolo, come pure quello originale (Kiss me, Deadly), deriva dalla strana conclusione, confusamente suggestiva secondo il gusto tipico di A.: la donna del capo banda, dopo aver ingannato il nostro Hammer, gli chiede di baciarlo per ucciderlo, rimproverandolo di essere un bugiardo seduttore e traditore, non si sa bene di chi e perché, dato che è lei che ha ingannato e tradito lui; forse A. vuole far credere che lei ne è stata sedotta, anche se ad ogni buon conto ora lo uccide? Il film è affascinante, gradevole dal principio alla fine, e non solo per l'ottima fotografia; eppure il racconto fa acqua da tutte le parti ed è privo di motivazioni, sia psicologiche sia narrative, oltre che inverosimile, come quasi tutti i film di A. Perché la prima vittima non consegna alla polizia la pericolosa valigetta radioattiva? Nessuna spiegazione di come questa sia in circolazione, e poi finita proprio in mano di una donna indifesa. La quale non dice nulla allo sconosciuto, ma gli scrive una lettera postuma con sciarada basata su poesie che lei ha appena detto che lui certamente non legge e non conosce. La banda uccide lei, da cui vuole avere informazioni, ma per errore lascia in vita Hammer, di cui per ora non si interessa. Quando lo farà, anziché ucciderlo semplicemente in economia, per farlo tacere gli offre una ricca auto nuova, ufficialmente per comperarne il silenzio, di fatto per farlo saltare in aria ad alto prezzo. E così via: una storia per la quale A. non ha alcun interesse. Velleitarismo culturale, superficialità psicologica, incoerenza, eccessi e arbitrii narrativi, sono i soliti ingredienti di A., ma come sempre ne costituiscono anche il fascino, forse qui più che altrove (ma secondo me ancora di più in Che fine ha fatto Baby Jane, dove sono più vistosi e più giustificati stilisticamente).

Su Robert Aldrich

Non si deve giudicare dall'apparenza: in Scusi, dov'è il west? lo insegna il rabbino, come prima irritata e plateale lezione alla comunità di ricchi ebrei di San Francisco cui è stato inviato, proprio mentre accetta di fare il rabbino per loro: si era vestito male e si era presentato come un indegno amico del rabbino; aveva deciso di rinunciare all'incarico, non per aver ucciso un uomo per legittima difesa (come aveva creduto il suo amico bandito) bensì per essersi preoccupato, nel momento del pericolo, di salvare "un libro" (la Torah) anziché l'amico. L'episodio può essere il simbolo del regista, dei suoi pregi e difetti e ambiguità: anche A. si preoccupa troppo più del "libro" che dell’uomo, cioè più dell'effetto e talvolta degli effettacci dei suoi film che dei suoi personaggi, trattati sempre con una certa superficialità, senza indagare il senso dei loro drammi, forse per il gusto di capovolgere a sorpresa la vicenda (altro effettaccio) per dare un senso stravolto ai drammi e ai personaggi descritti: vistoso nei due film con Bette Davis, in cui solo alla fine la presunta vittima risulta volontaria responsabile del dramma imposto, o in L'occhio caldo del cielo in cui il bandito scopre che la sua amata è sua figlia. Il ribaltamento conclusivo delle situazioni, anche se non sempre così vistoso, impone sempre allo spettatore una revisione dei giudizi sui personaggi, senza possibilità di riesaminarli, poiché il film è concluso e il ricordo resta falsato dal pre-giudizio iniziale. Ci sono sempre drammi psicologici, ma senza una vera analisi psicologica: tutto è presentato in modo molto schematico, proprio per poter cambiare le carte in tavola alla fine; è proprio quello che accade normalmente nella vita, in cui ci troviamo a giudicare o comunque a trattare gli altri vedendone le caratteristiche psicologiche ma ignorandone i veri motivi, ma l'arte non deve essere banale riproduzione meccanica della vita; deve darle un senso, e forse A. vuole darle proprio questo, della costante ambiguità. Così anche esteticamente le sue caratteristiche più tipiche possono risultare pregi o difetti, secondo i momenti o i punti di vista o i film o i singoli episodi dei vari film, sempre in bilico fra il gioco e la più intensa o melodrammatica partecipazione emotiva. Anzi, proprio quando è tanto plateale da apparire simulata, la violenza espressiva finisce per confondersi con il distacco ironico e diventa accettabile. L'intera impostazione tematica, stilistica, narrativa e morale di A. si presta a eccessi melodrammatici di racconto e di interpretazione, ma anche a incoerenze, indeterminatezze, imprecisioni, sia psicologiche sia narrative. Basta esaminare le reazioni dei critici a film come Attack! (Prima linea), visto come militarista e antimilitarista, come coraggiosa denuncia e come convenzionale esaltazione dei valori più convenzionali, come asciutta e violenta descrizione di azioni di guerra e come Gran Guignol in cui la guerra scompare nello sfondo: il colonnello è visto come "più persuasivo, perché più moderato" da L. P., e invece al centro di una "coraggiosa" denuncia da C. Terzi, mentre il tenente Costa è per qualcuno un "militare esemplare", per altri una banale ripetizione degli "eroi" western, e per A. Solmi addirittura "puramente negativo (...) un gangster invasato"; Moravia vede nel film e nel regista quasi "un militarismo nazista", nonostante il fatto romantico e a sua volta convenzionale che i superstiti non si arrendono perché uno di loro è ebreo e verrebbe mandato a Dachau. L'ambiguità tematica e "morale", oltre che stilistica e psicologica, è "necessaria" alla proposta generale di astensione da ogni giudizio per la relatività morale, psicologica e quindi estetica di ogni situazione, ma non impedisce prese di posizioni da parte del regista, anche molto forti, sebbene incoerenti e confuse e sostanzialmente molto conformiste. Anche Scusi, dov'è il west?, che sembra sotto certi aspetti il più moderno e quasi una palinodia delle precedenti esaltazioni della violenza, in realtà non la rifiuta; il bandito spiega che ognuno è quello che è e deve adeguarsi al proprio ruolo, lui a quello di bandito come l'altro a quello di rabbino; e lo convince, ma il rabbino si convince anche a usare la pistola, per lo meno come minaccia contro il "cattivo" che voleva ucciderlo; e quello resta proprio "cattivo", mentre il bandito amico è proprio "buono", riconosciuto tale anche dal capo indiano, colto e raffinato intellettuale decadente... Il bandito è più "morale" del rabbino, cioè più rigidamente attaccato al dovere di attenersi al proprio "ruolo"; ma forse finirà per restare a fianco del rabbino, una specie di braccio sinistro di Dio; in compenso il rabbino lascia al suo nemico tutto il resto dell'America, purché quello lasci a lui San Francisco. Non è possibile trarre giudizi morali da queste paradossali conclusioni né dalle varie situazioni e discussioni dei film di A. Non è possibile trarne nulla, né tesi né giudizi morali o estetici né considerazioni psicologiche, neppure il piacere del fare cinema né di ingannare o sedurre o inquietare o far riflettere il pubblico, come fa per esempio Bergman. Effettacci, colpi di scena, violenza gratuita, anche psicologica, ma con psicologie elementari e mai veramente analizzate, anche se spesso estreme; i tentativi di analisi sono superficiali, dilettanteschi, come i riferimenti culturali che a volte vengono suggeriti e che qualche volonteroso critico coglie e sviluppa forse per condividere con regista e sceneggiatore sfoggi di cultura da Reader's Digest: dal mito di Pandora disturbato per Un bacio e una pistola a quello edipico per L'occhio caldo del cielo. Sempre grande la fotografia di E. Laszlo, ma anche questa compiaciuta e fine a se stessa, non funzionale alla vicenda o ai sentimenti narrati.

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