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Vivere e morire a Los Angeles

Regia di William Friedkin vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Vivere e morire a Los Angeles

di precint13
10 stelle

Chi ha visto e apprezzato il recente Drive (2011) e non ha ancora visto Vivere e morire a Los Angeles (1985), capolavoro di William Friedkin, farebbe bene a recuperare questo incandescente poliziesco.

Nell'iridescente anfiteatro della città degli angeli si svolge la lotta senza quartiere tra il trafficante di denaro falso (e pittore d'avanguardia) Rick Masters e gli agenti dei servizi segreti Richard Chance e John Vukovich: pur d'incastrarlo, questi ultimi sono disposti a ricorrere ad espendienti al di là della legge.

Ampliando un romanzo dell'ex-agente Gerald Petievich (l'attentato terroristico dell'inizio - che, con il senno di poi, pare nefastamente profetico - e l'incredibile inseguimento contromano non sono presenti nel libro), Friedkin gira un noir metropolitano tra i più secchi che si siano mai visti. Non un fronzolo, non un arabesco, non un orpello, non un'inquadratura più del necessario: persino i momenti d'introspezione sono filmati come se fossero una sparatoria. Eppure, dietro la superficie di un poliziesco convenzionale (ma non scontato), si nasconde un film ossessionante/ossessivo/ossesso che si staglia con impressionante struggenza nella filmografia più nobile di Friedkin. La contiguità ambigua tra legge e crimine (ordine e anarchismo, il dollaro vero è identico, speculare al dollaro falso), tra scopo e ossessione, tra arte e perversione (il pittore non a caso è il falsario), tra male sociale e male congenito era già sparsa tra Il braccio violento della legge, Cruising, Il salario della paura, Festa di compleanno e L'esorcista.
Il mistero dell'identità personale è sempre stato al centro della filmografia di Friedkin (Festa di compleanno, Cruising, forse anche L'esorcista, sicuramente nello smarrimento "intellettuale" dei protagonisti di Festa per il compleanno del caro amico Harold), ma qui si colora di ulteriore sfumature, forse anche più turbative: il geminarsi (i colleghi si chiamano "gemello" l'uno con l'altro) dei protagonisti in un'infinita successione (un'eterno ritorno) produce una teoria di cloni che paiono differire solo nell'aspetto fisico. Quando Chance muore, Vukovich (che all'inizio ci pareva una specie di "grillo parlante", di nemesi/amica) si trasforma, caricandosi dei medesimo cinismo e ambiguità (doppiezza equivocità indefinibilità). E possiamo immaginare, a questo punto, che anche Chance sia diventato pian piano il "body-double" del suo primo "gemello" (che muore a inizio film). Il ruolo non solo definisce l'identità ma la plasma, la modella, la de-forma: Chance significa "caso" e "possibilità". La scelta, in questo immenso e occulto gioco di ruolo, è solo apparente.
Si è detto film iperrealistico, ma il cosidetto realismo è solo una facciata (sublime, geniale) per nascondere angosce metafisiche. L' "immediatezza" auspicata da Friedkin finisce per estrarre il film dal presente, per renderlo corpo pulsante disintricato dai rovi della misura del tempo. Il ciclo continuo degli eventi ci riporta al ciclo della vita stessa, alla sua palingenesi di forme tra morti e nascite: la cornice/Los Angeles non è più solo quella "notturna" del noir anni '40. Friedkin riprende anche l'alba, il mattino, il pomeriggio, il tramonto. La città nasce e muore con i suoi personaggi, muterà come loro.

Film vibrante, corda perennemente tesa, martellato dalla colonna sonora di crescendo e percussioni dei Wang Chung, con un protagonista puro corpo dinamico (Petersen lavorerà con Friedkin anche nell'allestimento televisivo de La parola ai giurati, risultando forse il più insipido dello strepitoso cast) e un cattivo (ma chi è buono?) di mefistofelica grandezza, meravigliosamente fotografato da Robby Muller (fasto di condizioni e sorgenti di luce disperate, il sole e i neon...). In una parola: imperdibile.

Indimenticabile la sequenza della contraffazione dei dollari, pura orgia capitalista, più erotica delle scene di sesso che (nemmeno troppe) campeggiano nel film.

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