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La grande scommessa

Regia di Adam McKay vedi scheda film

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giorgiobarbarotta

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La recensione su La grande scommessa

di giorgiobarbarotta
6 stelle

Mi si perdoni la schiettezza e la palese ignoranza: non c'ho capito niente. Ok, il sunto è l'immoralità del sistema finanziario: banche fraudolenti, crollo del mercato immobiliare, omertà delle istituzioni. Tutto attualissimo. Ok, il motore della storia è la geniale intuizione di un manipolo di scafati indipendenti pronti a far soldi a palate muovendosi astutamente. Ok, con un cast così al cinema ci vai volentieri, garante di proposta buon livello, persino un pizzico glamour. Ma il risultato è un'incomprensibile e ubriacante raffica di nozioni d'economia che, per i non addetti ai lavori e gli esperti, lasciano interdetti. Si aggiunga la frenesia espressiva americana, ormai consueta per il grande schermo, la brillante sequela di ammiccamenti, confessioni e spiegazioni, le continue trovate didascaliche, gli interventi sparsi dei personaggi dello show business, i dialoghi aggressivi (e il costante turpiloquio), l'ambiente da squali di Wall Street in carriera, il ritmo elevato e una certo fastidioso populismo di fondo …beh, il risultato è quantomeno discutibile. Sintetizzando, per chi scrive: tanto rumore per nulla. La noia, per assurdo, è dietro l'angolo, nonostante il ridondante sbracciare stilistico. Le emozioni (compreso lo scontato sdegno per i clamorosi otto milioni di americani senza più lavoro e altri sei persino senza casa …e questa è Realtà) latitano, non fosse per uno schizzato Christian Bale, che ci riporta sul piano nervoso ad una dimensione più umana, e una parentesi di dramma vero nel confronto dialogo tra Steve Carell (eccellente nella parte di un tormentato trader) e Marisa Tomei, che condividono un grave lutto famigliare. Basta un impietoso confronto con una sequenza qualsiasi del Michael Moore di Capitalism per far crollare il palco. Brad Pitt produttore sceglie ancora una volta di cucirsi addosso il personaggio moralmente migliore, aggiungendo un ruolo poco più che cameo alla sua studiata carriera. Gosling incarna sgradevolmente un cinico e scafato giovane affarista. Sigle, acronimi, scatole cinesi, numeri, McKay pare compiacersi nello snocciolare una miriade di dati, neanche fossero le tabelline delle elementari da imparare a memoria. Ironia studiata per alleggerire il passo pesante degli eventi, spiattellati e ostentati saccentemente. Suggerisco di rivedere Margin Call con Kevin Spacey, per chi l'avesse perso. Stessa materia, ma altro nerbo, altra riuscita. Renato Zero cantava: "Soldi, mani protese e sguardi ingordi…", in una canzone di 4 minuti un'efficacia molto più ficcante.

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