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El Abrazo de la Serpiente

Regia di Ciro Guerra vedi scheda film

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La recensione su El Abrazo de la Serpiente

di pazuzu
9 stelle

Cavalcando una canoa lungo il fiume Yari e facendo ripetute soste sulle sue sponde, i personaggi si muovono come in un western crepuscolare senza cavalli, lungo un percorso intimo ed esistenziale capace di ammaliare e scuotere i sensi, dove a farla da padrone sono l'imponenza dei paesaggi, e l'incomunicabilità tra due culture agli antipodi.

 

«Questo film è dedicato alla memoria dei popoli le cui canzoni non conosceremo mai».

 

L'immenso territorio dell'Amazzonia, con la sua storia e con il florilegio di culture in esso sviluppatesi nel corso dei secoli, è in buona parte un mistero per coloro che, oggi, vivendo negli stati dell'America Latina e volendo indagarlo a fondo, difficilmente riescono ad andare oltre le informazioni filtrate attraverso la lente deformante dell'uomo bianco colonizzatore.
Ne El Abrazo de la Serpiente, l'intenzione di Ciro Guerra, regista colombiano che già nel precedente Los Viajes del Viento aveva dimostrato estrema attenzione per tradizioni divenute minoritarie e a rischio di estinzione, è quella di dar voce ai nativi del posto e fornire piena legittimità al loro punto di vista. Per farlo, prende spunto dai diari scritti da Theodor Koch-Grünberg e Richard Evans Schultes, rispettivamente un etnologo tedesco ed un biologo statunitense, i quali, in periodi diversi del ventesimo secolo, esplorarono quei luoghi entrando in contatto diretto con quelle genti o con ciò che ne era rimasto.

 

 

Ipotizzando un filo diretto tra la missione del primo e quella del secondo, Guerra (coadiuvato alla sceneggiatura da Jacques Toulemonde Vidal) costruisce il proprio film sovrapponendo i due diversi piani temporali attraverso un racconto in parallelo che ha per protagonista il medesimo sciamano, Karamakate, trovatosi a far da guida, a quarant'anni di distanza, prima ad un esploratore e poi all'altro, entrambi alla ricerca della yakruna, una pianta rarissima dalle proprietà allucinogene e terapeutiche: cavalcando una canoa lungo il fiume Yari e facendo ripetute soste sulle sue sponde, i personaggi si muovono come in un western crepuscolare senza cavalli, lungo un percorso intimo ed esistenziale capace di ammaliare e scuotere i sensi, dove a farla da padrone sono l'imponenza dei paesaggi, splendidamente immortalati da una fotografia monocromatica (di David Gallego) contrastata e caratterizzata da neri profondi, e la palese incomunicabilità tra due culture pressoché agli antipodi, una centrata sul totale rispetto della natura e del prossimo, l'altra mossa da una pretesa superiorità che tutto soverchia.

 

 

E nell'arco del quarantennio trascorso tra un viaggio e l'altro, a saltare agli occhi, assieme all'ottusa protervia degli occidentali civilizzatori (cui fa eccezione solo in superficie l'approccio pacifico dei due uomini di scienza) sono proprio i danni irreversibili arrecati dagli stessi a civiltà meno forti e di certo meno prepotenti, finite annientate o al massimo solo annichilite: lo stesso Karamakate, ultimo sopravvissuto dell'etnia Cohiuano, dopo una vita passata in solitudine ad opporsi fieramente ad ogni forma di sottomissione o compromesso, giunge all'età anziata, e al secondo intervento in soccorso dell'uomo bianco, visibilmente segnato dall'esito del primo, e - con uno slancio rinnovato in direzione di una ricerca interiore che è carattere fondante del proprio modo di essere - opera un'apertura di credito tanto disperata e inevitabile quanto potenzialmente inutile: conscio di appartenere ad un popolo che vive ormai solo nei suoi ricordi, sente sulle proprie spalle il peso di tanto sapere in via di dissoluzione, e cerca di salvarlo trasferendolo ad un uomo che - per formazione - è talmente poco integro, talmente impuro d'animo, da non essere in grado di far nulla in più che celebrarne la memoria.
Perché a sopravvivere non sono quasi mai i migliori, ma coloro che meglio si sanno adattare.

 

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