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Louisiana

Regia di Roberto Minervini vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Louisiana

di cheftony
7 stelle

Sono piccoli gruppi che cercano di sopravvivere, rimanere a galla, proteggere le loro famiglie e il loro territorio, persone pronte anche a far esplodere violentemente la loro rabbia nei confronti delle istituzioni che non li rappresentano affatto. Ecco perché parlo di «The other side», un modo di dire che in America si utilizza per tutti coloro che sono diversi in qualche modo. Queste persone sono per me anche la rappresentazione di quanto l'America sia un paese in corto circuito, un paese armato, un focolaio pronto ad incendiarsi.”

 

Roberto Minervini

Louisiana (2015): Roberto Minervini

 

Louisiana, 2014, ma scordatevi di New Orleans e degli afroamericani: la periferia degradata di West Monroe, una sorta di ghetto bianco della Louisiana del nord, è terra di nessuno, dove non troviamo poliziotti razzisti che sparano a neri inermi, come ci si potrebbe sbrigativamente immaginare fidandosi degli stereotipi; l'oggetto d'indagine del documentario di Roberto Minervini, marchigiano di nascita ma ormai cittadino statunitense, è diviso in due tronconi: la prima ora scava nell'intimità e nella quotidianità di Mark (Mark Kelley), piccolo tossicodipendente e spacciatore senza arte né parte, e della sua compagna Lisa (Lisa Allen), anche lei schiava del vizio e immersa nella miseria di una vita in roulotte e senza un lavoro.

Produzione casalinga più che discreta di crystal meth, spaccio (anche agli amati parenti), consumo e somministrazione vanno di pari passo: Mark e Lisa si amano come due ragazzini, ma passano le giornate a drogarsi, ad arrangiarsi e a perdere ogni speranza, al punto che Mark spera lo arrestino per quei tre mesi di galera che deve ancora scontare come unica scappatoia per ripulirsi dalla dipendenza da crack e metanfetamine.

West Monroe è piena anche di vecchi reduci di guerra costantemente ubriachi e malconci, innocui ma fuori controllo, le cui simpatie politiche vanno paradossalmente a Hillary Clinton; il dettaglio non è di poco conto, poiché il filo conduttore che conduce di punto in bianco alla mezz'ora finale è il comune senso di abbandono da parte delle istituzioni e di disgusto per i mandati di Barack Obama: un gruppo paramilitare locale, capeggiato da giovani reduci di guerra, organizza raffazzonati campi d'addestramento e tiri a segno, con tanto di demolizione di un'automobile a colpi di artiglieria pesante dopo avervi scritto sulla carrozzeria“Obama sucks ass” con la vernice spray…

 

scena

Louisiana (2015): scena

 

Minervini, laureato in economia ed emigrato a New York, perse il lavoro d'ufficio nell'attentato alle Torri Gemelle: con i soldi dell'indennità si iscrisse ad un corso di media studies, scintilla che diede inizio alla sua carriera registica; in realtà voleva fare il fotoreporter di guerra, ma i figli e la moglie Denise Ping Lee (con la quale ha progettato questo “Louisiana – The other side”, presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2015) non glielo avrebbero mai permesso. Eppure il suo sguardo resta quello di un reporter: intesse rapporti, instaura un clima di fiducia, riprende, monta il girato e non interviene, non commenta, non giudica. Niente voce narrante, niente domande dirette ai protagonisti.

Coproduzione italo-francese e ciononostante un po' bistrattato dai nostri media in occasione del festival, l'ultimo lavoro di Minervini nasce come diretta conseguenza del precedente “Stop the pounding heart”: Lisa Allen è, di fatto, la sorella del padre di un protagonista del docufilm texano. Fortunatamente sottotitolato e non doppiato, il film gode di inconsueti giochi di luce, quasi confortevoli, ad opera del direttore della fotografia Diego Romero Suarez-Llanos.

Louisiana – The other side” è un film particolarmente duro, diretto, che poco si presta alle impressioni a caldo: complica ulteriormente le cose il radicale cambio di registro dall'intimismo della prima ora, quella che segue Mark, Lisa e il vecchio Jim, alla mezz'ora finale, più cruda e collettivista, finanche politica, che segna un'ulteriore spaccatura nella comunità di West Monroe: i tossici, disoccupati e pregiudicati (impossibilitati al possesso di armi, diritto costituzionale) da una parte, i difensori del proprio habitat da un nemico indefinito (l'ONU) dall'altra, che spendono un sacco di soldi in armi da guerra per una grottesca missione trangugiando birre a giornate.

Minervini nel montato finale non lesina momenti forti, come la stripper visibilmente incinta che si fa bucare prima della lap dance, oppure scene pornografiche con cui tenta di consegnare un messaggio (vedasi la ragazza intenta in una performance orale in pubblico indossando la maschera di Obama, come violenta forma di irrisione del Presidente); di tanto in tanto, a contrastare tale squallore, c'è spazio per riflessioni interessanti e sorprendentemente lucide di alcuni protagonisti.

Gli affetti documentati sono in buona parte genuini (si vedano i rapporti di Mark con la madre malata e l'anziana nonna o i continui momenti di “tentata” tenerezza con Lisa), in parte necessariamente frenati da una consapevolezza salterina di vivere in una condizione di miseria materiale e morale.

L'unico problema del lavoro di Minervini è probabilmente la mancanza di unitarietà; la scelta di fare una cronaca silenziosa e antipropagandistica è rigida, deliberata ed encomiabile, ma porta con sé inevitabili dubbi sul confine fra verità del mondo reale e verità documentaristica: quest'ultima deve necessariamente essere filtrata perché il consenso dato ad essere costantemente ripresi porta più o meno consciamente i protagonisti ad essere più volte sopra le righe, come a voler levare la propria voce, strozzata dall'emarginazione, più in alto possibile. Giocherà la sua parte anche la disinibizione da metanfetamine, magari, ma la sensazione complessiva è che non si possa parlare di un documentario in senso stretto.

Ma questa è conseguenza non di demeriti di un autore e regista bravissimo, coraggioso e anticommerciale, bensì di un metodo operativo che Minervini, discreto e silente ma comunque inserito come elemento estraneo in una realtà, ha fatto suo con coerenza. Il risultato è più che buono, una testimonianza da vedere e far maturare fra i propri ricordi.

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