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El Rey de La Habana

Regia di Agustí Villaronga vedi scheda film

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La recensione su El Rey de La Habana

di scapigliato
9 stelle

Tratto dall’omonimo romanzo dell’autore culto cubano, Juan Pedro Gutiérrez, El rey de La Habana scontenta i palati più fini, i più intellettuali, quelli a cui piaceva il Villaronga impegnato, quello di Pa negre (2010), o il Villaronga degli esordi, quello di Tras el cristal (1986) o El niño de la luna (1989). Eppure, pur non essendo un film perfetto, El rey de La Habana eccelle proprio là dove viene criticato senza mezze misure.

Víctor Blanes Picó di “El antepenúltimo mohicano”, rivista online leader per la critica cinematografica spagnola, esordisce così: «Per regnare a La Avana, bisogna avere un gran cazzo. E Reynaldo, il Re, ce l’ha. In questo modo gli si aprono tutte le porte (e tutte le gambe) de La Avana. Così si potrebbe riassumere il nuovo film di Agustí Villaronga […]». Invece no. Non si può e non si deve riassumere così il film di Villaronga, proprio perché nelle critiche mosse dai detrattori si trovano i punti di forza e le strategie linguistiche con cui l’autore mallorquín porta sullo schermo uno dei romanzi cardine non solo di Juan Pedro Gutiérrez, ma della letteratura cubana di fine novecento.

La crudezza, la feralità, la bestialità con cui Gutiérrez racconta del giovane Rey e della sua enorme “pinga” e l’aspetto picaresco e ironico delle sue avventure erotiche e alimentari per la Cuba degli anni ’90 vengono trasportati sul grande schermo attraverso un approccio grottesco ed esteticamente impressionista che fa del realismo tipico di una storia dal forte taglio sociale, lo scenario iconograficamente suggestivo per una favola a metà strada tra il magico e il neorealista.

Il film si apre con una sequenza di memorabile sintesi narrativa e tematica in cui vengono condensati alcuni degli aspetti più forti di questo tremendismo iberico: sesso, morte e tragedia. Più avanti, a questi si aggiungono gli elementi base della narrativa picaresca: vagabondaggi, furtarelli per sopravvivenza, il mondo adolescente e il continuo cambio di “padroni” e ambienti. Questi elementi narrativi, com’è noto, sono l’articolazione della celebre figura del pícaro, ovvero, un giovane, o anche un adulto, che non pensa ad altro che a mangiare, dormire e copulare. I bisogni basici dell’essere umano, comprensivi delle varie evacuazioni, e tanto cari anche alla commedia dell’arte e al cinema comico popolare, tornano ad essere i motori narrativi di trame moderne che si confrontano con l’attualità cercando nei cambi linguistici ed estetici nuove forme per rappresentare il disagio, l’inadeguatezza, il dramma, ma anche l’energia e la felicità dell’uomo comune, incarnato nella figura del povero vagabondo.

Gli intenti di Villaronga sono già quindi tutti espressi fin dall’incipit, ma è con le sequenze successive che il regista affonda il suo sguardo nell’intimità dei personaggi trasformandoli, come aveva già fatto a suo tempo Gutiérrez, da figure del particolare a figure dell’universale. I personaggi archetipali di El rey de La Habana, su cui spiccano sia il giovane e trascinante Maikol David Tortolo sia l’espressiva Yordanka Ariosa, candidata ai Goya per questo ruolo, sono figure di una messa in scena teatrale, nella cui episodicità si topicizzano i temi e i motivi basilari dell’intera narrazione. Emblematica la sequenza in cui il giovane protagonista, dopo essere evaso dal carcere, torna nel suo vecchio quartiere e trova la grassa madre di Magda pronta a concedersi sessualmente. Con estrema facilità narrativa il ragazzo si spoglia, mostra il celebre fallo e si lascia andare alla copula selvaggia arricchita di volgarità ed espressioni pornografiche. Il copione si ripete in tutte le successive scene di sesso, con uguale facilità e con una certa sfacciata puerilità che in molti hanno tacciato erroneamente di gratuità ed indecenza. Villaronga sarebbe reo di non aver fatto un film “sociale” o “politico” sulla Cuba degli anni 90, ma un film sulle indecenti ed inutili avventure erotiche di un ragazzino con il pene gigantesco.

La leggerezza con cui le scene di sesso appaiono e scompaiono dalla storia, agiscono come funzioni archetipali di altrettanto archetipali personaggi, dotandoli di quell’universalità che li avvicina alla sensibilità dello spettatore. Questo procedimento di rappresentazione, unito al taglio grottesco e tragicomico della vicenda, permettono alla pellicola di spiazzare continuamente lo spettatore, diviso tra morbosità voyeuristica, distanza sociale ed immediata empatia. È proprio nella modulazione narrativa frammentaria, bislacca, quasi forzata e a tratti improbabile, che risiede la forza del film. Villaronga, nel difficile lavoro di sintesi romanzesca, preferisce spiazzare con scelte ambigue invece di confezionare l’ennesimo film neorealista sulle drammatiche condizioni sociali di un popolo latinoamericano; preferisce una messa in scena puerile e uno sguardo registico banale per rafforzare il valore simbolico di storia e personaggi.

Se c’è davvero una critica, va fatta alla fin troppo pudiche scene di sesso. Per essere un film che gira intorno all’animalità sessuale di un adolescente che fa da specchio alla visceralità del popolo cubano e dei suoi tentativi per sopravvivere sorridendo, c’è fin troppo pudore. È anche vero che il tono brillante e tragicomico non ci avrebbe azzeccato con una certa scabrosità. Rasentare la pornografia sarebbe stata una chiave di lettura, dato che Villaronga si accanisce sulla miseria e sul febbrile rapporto tra Eros e Thanatos con sguardo pornografico, ma il regista preferisce la teatralità posticcia degli eventi, ravvisabile soprattutto durante le finte fellatio, in contrasto con una messa in scena scabra e incisiva, tra il barocco e il neorealista, arricchita da una fotografia magica che avvolge il film di una bellezza adolescenziale. Ecco perché Villaronga è, tra i pochi registi possibili, l’unico che possa portare su grande schermo il capolavoro di un altro Agustín, almeriense stavolta, Agustín Gómez Arcos: El cordero carnívoro (1975).

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