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La vergine di cera

Regia di Roger Corman vedi scheda film

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La recensione su La vergine di cera

di spopola
8 stelle

C’è qualche incongruenza in questo film di atmosfere inquietanti più che di effettiva paura ma l’andamento è quello giusto, come se le eterogeneicità e le incongruenze abilmente scecherate dal “barman” Corman avessero in qualche modo nobilitato la materia, tanto che il risultato finale è di poco inferiore ai più corposi capolavori del regista.

Mi è capitato quasi per caso fra le mani (si fa per dire) il DVD di “The Terror” (ma io una volta tanto preferisco ricordare il film con il diverso titolo de “La vergine di cera” con il quale fu distribuito in Italia agli inizi degli anni ’60, non perché più pertinente e appropriato, ma per esclusivi, personali, semplici motivi nostalgici, in quanto associo il titolo alle emozioni profonde riportate in quegli anni lontani quando “tampinavo” da vicino ogni pellicola horror in programmazione, per uscire poi dalla visione scosso e impaurito con masochistica determinazione e rinnovata lena). Qui poi emergono ricordi analogamente struggenti visto che riuscii ad accaparrarmi la visione quasi clandestinamente in una sala vicina alla stazione ora adibita esclusivamente alla proiezione di pellicole a luci rosse, in un pomeriggio feriale inopinatamente libero dalle incombenze lavorative per aver aderito (ed era “la mia prima volta”) a uno sciopero generale, scelta che mi aveva fatto sentire fiero di me stesso per aver avuto il coraggio di “osare” nonostante le paure e i bisogni, e di rivendicare la mia “libertà ideologica”. Beh… ma è meglio non lasciarsi sopraffare troppo dai ricordi che finirebbero per immalinconirmi: ho ritenuto semplicemente necessario rivangare questo episodio per far comprendere la titubanza in parte referenziale (ma soprattutto preoccupata per una possibile cocente delusione) con cui mi sono apprestato alla “rivisitazione”del supporto Dvd per la quasi certezza di trovarmi di fronte a un disastroso reperto ormai superato e quasi “inguardabile” per quelle ingenuità naïve che caratterizzavano spesso il genere, ma che riuscivano ugualmente a quei tempi a toglierci il sonno per molte notti, risvegliando paure ancestrali fra ombre e oscurità. E invece… (miracolo!!!!!) non è stato così, perché in qualche modo le emozioni si sono rinnovate, in maniera diversa ovviamente, ma capaci ugualmente di risvegliare il fascino sottile della poesia. Non vorrei esagerare (né risultare esagerato) e premetto subito che si tratta di un piccolissimo film di genere (quasi un’opera girata “con la mano sinistra”) che proprio per questo poteva presentare già in partenza tutte le caratteristiche peculiari per emarginarla nella categoria delle “ciofeche”, e che invece per ragioni imperscrutabili (ma non tanto peregrine) raggiunge (e mantiene nel tempo) “nonostante tutto” un suo singolare equilibrio. Sarà la magia dell’amalgama sotterraneo delle “genialità in erba” che ci transitano dentro o nei dintorni a rendere possibile il prodigio – primo fra tutti, l’ideatore e regista principale (preferisco chiamarlo così, viste le circostanze) di questa “impossibile impresa” che risponde al nome leggendario di Roger Corman? Corman aveva terminato le riprese de “I Maghi del terrore”, e pragmatico come sempre, pensò bene di utilizzare quel set ancora montato e disponibile, nonché la fondamentale presenza di Boris Karloff, per girare sequenze da “riciclare” per un’altra storia, della quale aveva in mente soltanto una labile traccia senza che esistesse un soggetto o una sceneggiatura definita e compiuta. Le riprese (praticamente tutte in interni) coprirono l’arco di soli tre giorni perché poi l’attore non era ulteriormente disponibile, ma furono sufficienti per definirne la presenza magnetica nella struttura generale della trama. L’esiguo e insufficiente materiale girato fu poi integrato qualche tempo dopo, con le sequenze in esterno girate (udite, udite!!!) nientepopodimenochè da un giovanissimo Francis Ford Coppola (qui alla sua prima prova importante) accreditato nei titoli di testa come secondo produttore, coadiuvato da un altrettanto semiesordiente Monte Hellman (indicato in locandina come “responsabile delle locations”) che si assunse anche l’onere di cercare di “aggiustare” la sceneggiatura di una storia che rimane comunque ondivaga e incerta in molti snodi. Se a questo si aggiunge che l’altro protagonista era un ancora sconosciuto e grifagno Jack Nicholson (cui fu affidato il compito di girare, coadiuvato da Jack Kill, le scene integrative del finale per poter finalmente dare un senso compiuto all’opera) capirete cosa intendo dire parlando di guazzabuglio impossibile e di “fluidi sotterranei” emanati da quei “talenti in pectore” che hanno singolarmente contribuito ad omogeneizzare il tutto, rendendolo digeribile e (perché no?) anche affascinante. C’è moltissima ingenuità sparsa a piene mani e qualche incongruenza in questo film di “atmosfere inquietanti” più che di “effettiva paura” (per lo meno sotto il profilo delle sensazioni forti, potrebbe davvero far sorridere molti in più di una circostanza, visto con gli occhi e la sensibilità moderna e considerando come si sono evolute le rappresentazioni del genere che ci hanno abituato a situazioni di ben altro tenore e coinvolgimento) ma il tessuto è sufficiente comunque a tenere sempre viva l’attenzione e l’interesse in attesa dei “disvelamenti finali”. La storia, abborracciata e zoppicante, come le premesse possono far ben supporre, narra di un soldato dell’esercito Napoleonico (Nicholson) sperdutosi dopo una battaglia nei paesi baltici, che incontra una donna affascinante e misteriosa (Sandra Knight, allora moglie di Nicholson, della quale poi, almeno qui in Italia, si perderanno completamente le tracce) se ne innamora follemente, fino a farsi coinvolgere e trascinare, fra “apparizioni” e “sparizioni”, in una delirante avventura dove quasi nessuno è poi quello che sembra. Banalità a non finire dunque, fra streghe votate al demonio e incantesimi; reincarnazioni e “suggestioni” mentali poco credibili; castelli sinistri e cripte maledette; uccellacci predatori e assassini coordinati dal male e baroni convenzionalmente diabolici, eppure le atmosfere, i colori, i “rapporti” sono quelli giusti, come se le eterogeneicità e le incongruenze abilmente scecherate fra loro dal “barman” Corman (ineguagliabile maestro in questo genere di imprese) avessero in qualche modo fatto lievitare la materia al punto giusto, tanto da risultare, il risultato finale, di poco inferiore ai più corposi capolavori ispirati a Poe. Qui manca ovviamente l’entroterra letterario (e non è differenza di poco conto) e anche l’ambiguità dei personaggi è più scoperta, ma potrebbe benissimo essere spacciata per un’opera meno riuscita ma di analoga derivazione, perché le suggestioni dell’insieme risultano in perfetta sintonia con quelle pellicole miticizzate. Per concludere insomma, ancora oggi nonostante il tempo passato e gli acciacchi, commovente e godibile nella sua evidente semplicità artigianale.

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