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Creed - Nato per combattere

Regia di Ryan Coogler vedi scheda film

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La recensione su Creed - Nato per combattere

di scandoniano
6 stelle

Operazione commerciale che sfrutta la fama di “Rocky” per rinverdire il franchise. I messaggi sono tanti, ma sorprende quello piuttosto evidente con cui si vuole ribadire (ce n’è ancora bisogno?) la parità di dignità tra bianchi e neri. Concentratosi su quest’ultimo aspetto, il film perde di vista il resto.

Che lo si consideri uno spin-off o il settimo capitolo della saga di “Rocky”, questo “Creed – Nato per combattere”, pur lasciando trasparire con evidenza l’operazione commerciale tesa a sfruttare (o spremere?) il franchise che ha fatto la storia del cinema, ha indubbiamente elementi che richiamano la saga portata al successo da Avildsen e Stallone.

Il rapporto tra i meccanismi consolidati di “Rocky” ed i protagonisti di questo film (lo stesso Balboa nei panni di uno svogliato allenatore e il figlio naturale di Apollo Creed in quelli di un irrequieto campione in erba) è tra il rispettoso e l’innovativo. La figura del vecchio Apollo è addirittura mitizzata, al punto da essere definita come quella del “campione di boxe più forte di tutti i tempi”. In realtà questo concetto fa parte di un concepimento delle vicende che risente fortemente della mano dell’autore, quel Ryan Coogler che ha convinto Stallone a rivestire i panni del suo personaggio più fortunato e memorabile, per farne tuttavia un film diverso. Fortissima la componente sociologica, particolarmente marcato l’apparato sociale in cui il tutto si svolge, ma un equilibrio tra i personaggi che sfiora il manicheismo: Rocky passa in secondo piano, il protagonista assoluto è il bravo Michael B. Jordan, e lo sono in generale i neri del film. L’operazione sembra figlia di un grido di dolore contro l’Apartheid in un America che invece è molto più tollerante di quanto il film faccia credere. Non a caso tutti i personaggi principali buoni sono afroamericani (la madre premurosa – una rediviva Phylicia Rashad – la fidanzata talentuosa e bonaria), mentre i cattivi sono i bianchi (per alcune sequenze lo è addirittura lo stesso Balboa che non capisce le esigenze del campione in erba). Il fatto che appaia come un novello (ingiustificato?) “Radici del pugilato” distoglie lo sguardo dal valore estetico complessivo, che non è affatto male. I sentimenti scorrono a fiumi, come nei primi quattro capitoli della saga dello stallone italiano, ed è forse l’unico punto che sul piano filosofico associa questa pellicola a quelle legate al franchise di Rocky ed entrate nel mito della settima arte.

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