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Silence

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su Silence

di Texano98
7 stelle

Di Martin Scorsese ho sempre adorato quella consuetudine a tracciare minuscole sbavature, piccole falle fra uno stacco e l'altro capaci di rendere ancora più vivo il suo cinema. Scorsese, che è uno dei registi che porto nel cuore, è se vogliamo l'uomo-cinema per eccellenza,capace tramite la settima arte di unire magistralmente fotografia, musica, drammaturgia, esistenzialismo e, per dirlo citando il regista emblema di tale scuola, un pizzico di blasfemia che ha reso grande il suo discepolo Abel Ferrara. In Silence queste sbavature, ancora presenti e talvolta capaci di serrare alla poltrona, sono spesso intrise di un'opacità che negli ultimi anni germogliava solamente in secondo piano, grazie a idee chiare su cosa raccontare - la rapacità della finanza, la magia del cinema, i poteri della mente, per citare i suoi ultimi lavori - e virtuosi esercizi di stile. Con Silence si compie una spaccatura: abbiamo da un lato momenti di grande cinema, istanti di poesia compositiva fra natura e sguardi, dove Scorsese indugia sulle sofferenze di uomini senza futuro con un'unica fede che è quella in Dio. Dall'altro lato vediamo applicato un intero bagaglio d'ideologia occidentale a un lungometraggio che tenta di raccontare vicissitudini legate al Giappone imperiale.
"[...] Imponendo l'etichettta occidentale al cibo giapponese riuscì soltanto a renderne sgradevole il sapore" diceva Yukio Mishima in un suo saggio, e ahimè, dall'analisi sociologica effettuata da Scorsese traspare un'arroganza che conoscendo il suo cinema - la continua messa in discussione dei canoni (e delle fedi) occidentali - non mi aspettavo; non è la semplice ingenuità di uno straniero, è deliberata ridicolizzazione di un ordine sociale assai distante dal nostro, grossolanità sublimata dal ritratto del Governatore Masahige, fatto parlare esclusivamente per fornire il ritratto di un comandante becero, ignorante, incapace di capire altro che le sue parole e ancor peggio reso macchiettistico, unico personaggio del film a subire queste vessazioni ironiche. Una di quelle macchie capaci di inclinare il piacere nel guardare film per il resto lodevoli, macchie che il grande regista italoamericano aveva sempre evitato con il suo amore per l'imparzialità. L'onniscenza di un giudice che condanna solo col rosso del sangue - assopito ma non ancora sconfitto, se vogliamo, acciaccato. Scorsese s'immerge quindi nel dogmatico giappone imperiale studiando poco della sua intimità e delle sue tradizioni, mostrando giapponesi che agiscono e pensano come dei portoghesi dagli occhi a mandorla (portoghesi del ventunesimo secolo), esaminando solo marginalmente le motivazioni più o meno corrette che portavano le autorità a rigettare in modo così violento la dottrina cattolica. Questo errore, che equivale a costruire una cattiva impalcatura per uno spettacolo, è reso ancora più spiacevole ascoltando le profonde riflessioni che si accavallano nella seconda parte del film, specialmente in un bellissimo scambio di battute fra Padre Ferreira e il giovane Rodrigues, capace di fare intuire come la fede sia inesportabile, poiché essa non nasce da un'imposizione divina ma dalle proprie radici, figlia di un percorso interiore che non può essere imposto a terzi da nessuno, perché essi non seguiranno quel pensiero ma ne creeranno un altro parallelo, simile nei termini ma distorto e oscuro nelle intenzioni. Ferreira è arrivato alla conclusione che Dio risiede nella profondità di chi crede, non nel gesto di preghiera che può essere comune anche a un qualsiasi Giuda; il dramma di Rodrigues è l'ostinatezza con cui venera la figura concreta del Cristo, dubitando della sua esistenza sopra ai cieli - il dilemma lo perseguiterà fino alla fine, non mi è dato qui svelare, e forse non sarebbe nemmeno possibile, se si risolverà al termine della sua vita.
Assistiamo quindi all'interessante opera, sentita ma contraddittoria, di un regista capace con Silence di donare allo spettatore sprazzi di bellezza sopra a una sceneggiatura confusa, peraltro, una sceneggiatura così parlata e borbottante, quando i meravigliosi quadri del film sarebbero bastati da soli a narrare l'abbandono dell'ipotetico Dio nei confronti del protagonista. Ricordo ancora quanto mi stupì il Clint Eastwood di Lettere da Iwo Jima compiendo una scelta di rispettoso distacco nel realizzare il suo film, per fare un esempio. Il rasoio de L'ultima tentazione di Cristo è lontano, non resta che sedersi nel buio di una sala e gioire delle intuizioni di un grande maestro del cinema, ancora così distante da certi miseri imitatori della sua arte.

 

(Shinya Tsukamoto fra i protagonisti!) - Giudizio temporaneo; con Scorsese mi è più volte capitato di cambiare idea sui suoi film riguardandoli.

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