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Silence

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su Silence

di EightAndHalf
9 stelle

Messa della bellezza e della sofferenza.

 

Il sacerdote Rodriguez non fa fatica a confessare tra sé e sé, nella lettera che forse non riuscirà ad arrivare a destinazione (o forse direttamente nel suo dialogo con Dio), che in tutto quel Male che lo circonda c'è un'incredibile bellezza. E il traduttore giapponese non fa fatica a dire, nella sua opera di coercizione, che alla fine tutto non è "nient'altro che una formalità". Perché il Male che distrugge e uccide e mutila e impone il silenzio è, in Silence, un Male che ha nell'invisibile (ideologico, religioso, fideistico) il suo carburante, ed è per questo forse un Male assoluto, debilitante, acido, in grado di rivoltare come un calzino l'animo di un uomo. Un Male così "trasceso" (eppure fisico, brutale) da essere determinato e letteralmente deciso da gesti, simboli, sguardi, respiri troppo affannosi o sospetti. Basta pestare un'icona, con un piccolo movimento della gamba, per ritenersi liberi. Non ci sono motori politico-economici, e se ci sono stanno su un altro campo di battaglia: la guerra che si combatte in Silence è quella infinita e immortale delle fedi, delle idee, della diversa percezione del mondo. Una guerra di ideologie, che fa solo pochi cenni alle dinamiche internazionali del '600 (che spingevano il Giappone a dubitare delle intenzioni dei sempre più invadenti navigatori europei), e che presto perde i suoi connotati nell'indefinito, nei sussurri di una preghiera, nell'ostinazione del martirio.

 

Silence è un girotondo di pensieri, un viaggio spiraliforme, come se il fiume di Apocalypse Now si fosse piegato e contorto fino a diventare una nausea elicoidale lenta e inesauribile. Il centro della spirale è il luogo delle torture, un posto dove l'Inquisizione fa le sue vittime muovendosi a colpi di dimostrazioni, minacce, argomentazioni, accuse al Cristianesimo (pericoloso senza una ragione mai specificata). Intorno alle disgrazie con cui l'uomo colpisce l'altro elevando le sue giustificazioni all'infinito e al divino (o adattandole al terreno e all'immanente), regna un silenzio di tomba, che oscura gradualmente la vista, e costringe ad affrontare il Male di petto e coi proprio occhi. La regia di Scorsese è eloquente al riguardo: da plongée totali e verticali, a scorci sempre più bassi e limitati; dallo sguardo divino dall'alto, fino al rimbalzo fra i punti di vista (dalla nave oscurata dalle nuvole alle carrellate lungo le sbarre di una cella, a simulare lo scorrere dei fotogrammi e della pellicola). Il montaggio della Schoonmaker è frenetico, nervoso, insaziabile, vuole sapere dove mettersi, da dove osservare, anche da cosa può nascondersi (i contadini che vengono lentamente nascosti dalla nebbia), ma è come il protagonista, presto costretto dietro delle sbarre. Ed è dietro quelle sbarre che si consuma la tortura pasoliniana del campo-controcampo, dell'infuocato punto di vista, con il portico delle torture e delle uccisioni da un lato, e degli occhi talvolta sadici talvolta sofferenti dall'altro. La Storia si ripete, e il Cinema pure: Silence prende la lezione delle soggettive pasoliniane di Salò, la contestualizza in un analogo baratro formale che mette a disagio lo spettatore, e in questa tortura non nega mai, eversivamente, la bellezza, la simmetria, il campo lungo e "romantico" alla Kurosawa (Ran), la carrellata alla Mizoguchi (Gli amanti crocifissi), l'apparente raziocinio tra le parti alla Oshima (La cerimonia). Lo scontro delle idee (sempre Kurosawa, ma Rashomon). Le immagini in Silence  bruciano come i roghi dei cristiani perché sono immagini che in mezzo a tanti Assoluti hanno pochi punti di riferimento, e bruciano perché capiscono anche che l'unico riferimento, nel mare magnum umano delle singolarità, è l'Essere Umano, che nel suo stoicismo e nel suo martirio cristiano non ha niente di diverso dall'ostinazione del samurai che compie harakiri. Silence è un film che sa cosa affidare all'universale e cosa affidare all'effimero. Tra le cose universali stanno il sacro e l'indifferenza (e come l'uomo li vive), tra le cose effimere le illusioni.

E nel ping pong di illusioni, fra giapponesi stretti nella corporeità panteista di una Natura che li avvolge, li nutre e li uccide (il primo piano del Sole quando Rodriguez incontra il suo Kurtz, e i contadini che "feticizzano" gli oggetti che Rodriguez elargisce loro) e occidentali convinti della presenza di un Altrove che però, forse, può essere soddisfatto solo nell'intimità della propria singolarità, o nella morte, a dimostrarsi sempre uguale è l'uomo, con il suo plasmare la realtà con le sue idee e i suoi pensieri (sequenze apparentemente malickiane sostituiscono le derive del buon Terrence a favore di una sommessa linearità narrativa), e con il suo..essere sempre diverso dall'altro (le vere antitesi caratteriali del film sono i personaggi di Garfield e di Driver, e non quelle di cristiani e buddhisti, più simili di quanto sembri). Eppure, nonostante noi siamo in grado di notare le uguaglianze, seppur immerse in un relativismo talmente estremo e esasperante da farci sentire la voce di Dio nel momento di massima crisi, a rimanere di Silence è l'innata incapacità dell'uomo di comunicare e di condividere. 

 

Agghiacciante, importante, coraggioso e radicale, Silence  è indubbiamente un nuovo capolavoro di Martin Scorsese.

 

 

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