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Il figlio di Saul

Regia di Laszlo Nemes vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il figlio di Saul

di Trismegisto
9 stelle

 

 

E' un notevolissimo film sulla Shoah – senza dubbio uno dei migliori film di quest’anno – ed è di tale sconvolgente intensità da trascinare nel ridicolo la pochezza di qualunque Pigiama a righe, perché ti precipita nelle più nere profondità e nel cuore stesso del gorgo che travolse il XX secolo: parlo del Figlio di Saul, dell’ungherese Làszlò Nemes, che è la storia di un membro del Sonderkom-mando di Auschwitz, cioè di quel gruppo di prigionieri – ebrei anch’essi, perché la più luciferina sottigliezza della ferocia di quel regime consistè nel fare delle vittime i propri stessi carnefici – che per alcuni mesi, prima di essere eliminati a loro volta nonostante venissero alimentati meglio degli altri (ma non dovevano restare testimoni), avevano il compito di ingannare i depor-tati e convincerli che andavano a far la doccia anziché a morire atrocemente ammonticchiati nelle camere a gas, e promettere che all’uscita sarebbero stati rifocillati, ed esortarli a riporre gli abiti con ordine, e a tenere a mente il numero dell’attaccapanni. Poi dovevano chiudere le porte, ascoltare il boato delle urla che si levava all’improvviso e lentamente si affievoliva, mentre si forma-vano piramidi di moribondi che si schiacciavano l’un l’altro cercando di raggiungere la residua aria respirabile che si raccoglieva nella parte alta del locale, si ritraevano dall’area in cui veniva gettato lo Zyklon b che alla fine si ritrovava sempre vuota, si am-massavano contro le porte e da lì, trasformati in inerte, spaventosa muraglia umana, si abbattevano sui membri del Sonderkom-mando che le aprivano; in seguito, dopo aver estratto i denti d’oro dai cadaveri, portavano i corpi – i “pezzi”, bisognava dire, Stücke, Figuren, mai “uomini”, a rischio di punizioni – verso i crematorii, dando la precedenza ai più grassi per motivi di efficienza nella combustione, ripulivano la camera a gas dal sangue, dal vomito e dagli escrementi, suddividevano per generi i beni delle vittime, raccoglievano e seppellivano le ceneri e attendevano il trasporto successivo, qualche ora più tardi, per ripetere l’intera sequenza.

Il formato dello schermo, un angusto 4/3, rende ancor più soffocante l’esperienza dello spettatore che è costretto a volgere lo sguardo, in continuazione, sul protagonista Saul Auslander costantemente in primo piano, di fronte o di spalle, sempre solo lui a fuoco mentre tutto quanto avviene intorno a lui è sfocato, su un costante tappeto sonoro di grida, lamenti, ordini sbraitati in tedesco, spari, rumori vari. Sembra all’inizio che anche lui, come i suoi compagni, per sopportare quella spaventosa condizione di forzato complice dello sterminio, abbia soffocato ogni residuo di sensibilità, azzerato ogni capacità di empatia, e il suo sguardo duro, quell’aria di fredda attenzione depurata da ogni emotività e che non pare comunicare altro che una volontà di rabbiosa efficienza, sembrano testimoniare in tal senso. Forse anche la costante sfocatura di tutto l’orrore circostante, i prigionieri nudi che vengono spinti verso la camera a gas, i cadaveri, il sangue, intende rappresentare il proposito del protagonista di non vedere, di rimuovere l’evidenza di tutto quel male di cui egli stesso è attivo per quanto forzato operatore. Invece ad un certo punto accade qualcosa che risveglia d’un tratto in lui tutta la coscienza che pareva anestetizzata e pietrificata sotto le spoglie dell’esecutore di quello sporchissimo Arbeit che impone il regresso all’automa come sola condizione per non impazzire: un ragazzo esce vivo dalla camera a gas, un medico provvede subito a questo strano incidente soffocandolo personalmente, ma Saul decide che quel ragazzo non deve essere incenerito e deve ricevere le regolari esequie con la recitazione del Kaddish, perciò trafuga il cadavere e fino all’ultimo cerca un rabbino che possa celebrare il rito: ed è con la più incoercibile ostinazione che Saul si adopera, senza tregua, per rendere questo estremo onore ad un ragazzo che egli sostiene essere suo figlio, quando si sa che Saul non ha figli e che quel povero corpo è quello di suo figlio ma in un altro senso: diviene oggetto di doveri e sollecitudini paterne perchè incarna ai suoi occhi tutta la sofferenza del mondo martoriato, e insieme si fa per lui strumento di riscatto per la sua propria quota di male, quella con cui anch’egli contribuisce a muovere l’immenso demoniaco ingranaggio. Tale è la sua tenacia che per quel servizio funebre trascura persino gli sforzi dei vivi che lo hanno coinvolto nell’impresa disperatissima di organizzare una rivolta del Sonderkommando, crea dei problemi, alcune persone muoiono per la sua trascuratezza. La rivolta riesce poi solo in parte e culmina in una fuga dal campo che, anche prima dell’inevitabile massacro, tutti sapevano destinata allo scacco e alla morte certa, ma almeno questo sussulto di ribellione consentirà loro di morire con dignità. Saul è con gli altri fuggitivi in una capanna nel bosco, poco fuori dal campo. Le SS sono sulle loro tracce, le raffiche di mitra che si sentono poco dopo fuori campo sono un pleonastico suggello della disfatta, ma Saul è riuscito a gettare in acqua il corpo del ragazzo, il corpo di suo figlio in cui si compendia tutto il male del mondo. Per questo Saul, nell’ultima inquadratura, per la prima volta sorride.

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