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Steve Jobs

Regia di Danny Boyle vedi scheda film

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La recensione su Steve Jobs

di Fionnula
7 stelle

Il regista Danny Boyle sceglie di concentrare il suo film su un periodo relativamente breve della carriera di Steve Jobs, quello compreso tra il 1984 e il 1998. Si potrebbe erroneamente pensare che questo arco di tempo coincida con la rappresentazione di un'ascesa clamorosa e inarrestabile del genio fondatore di Apple. Il film ci mostra invece come quegli anni abbiano visto insuccessi brucianti, con il lancio fallimentare di due prodotti che porteranno, oltre alla crisi di Apple, alla fuoriuscita, più o meno volontaria di Jobs dall'azienda da lui stesso creata. Le promesse di successi in grado di stravolgere il mondo informatico e delle comunicazione e le successive vertiginose cadute, sono utilizzate da Boyle per restituirci un ritratto di Jobs non agiografico, ne' nella sua professione ne' tantomeno nella sfera privata.

Figlio adottivo, tormentato dal tarlo di essere stato rifiutato alla nascita e forse anche per questo motivo capace di essere cinico e spietato al limite della brutalità, si ostina per diversi anni a non riconoscere la bambina avuta da una relazione ormai conclusa. Solo quando la figlia mostrerà evidenti segni di una brillante intelligenza, in cui Jobs possa riconoscersi, si piegherà alle richieste economiche della madre di provvedere al suo mantenimento. Dal punto di vista delle due geniali creazioni, Boyle sottolinea come Jobs, che aveva infatti interrotto gli studi universitari, fosse sostanzialmente un autodidatta, dalle intuizioni rivoluzionare ma debole nelle competenze strettamente tecniche. Le sue visioni vengono messe in pratica da altri, al servizio del suo dispotismo e della mancanza di empatia e gratitudine verso i collaboratori. Jobs pare più concentrato, esteta inflessibile, a creare prodotti dal design ineccepibile, la facilità di utilizzo da parte dei consumatori finali è l'ultima delle sue preoccupazioni, ciò che gli interessa è creare qualche cosa di unico, che risponda primariamente alle sue elevate aspettative personali.

In controtendenza rispetto al fenomeno della globalizzazione che avrebbe preso sempre più piede negli anni a venire, Jobs progetta un prodotto chiuso, che non si interfaccia intenzionalmente con altri sistemi. Una sorta di dittatura informatica che sembra rispondere al principio per cui venne creato Internet: in origine una rete di comunicazione protetta e sicura in caso di emergenze mondiali e nucleari. Nel film di Boyle, Jobs appare innanzitutto come un abilissimo e freddo stratega di marketing, che, come ci mostra il finale del film nel 1998, otterrà il successo che tutti oggi conosciamo. Bravo Fassbender che, nella sua siderale bellezza, rinuncia all'imitazione estetica di Jobs, impresa che gli sarebbe risultata d'altra parte impossibile, vista la lontananza dai tratti spigolosi del vero Jobs. Solo nella seconda parte del film ne adotta lo stile inconfondibile e dimesso (gli occhialini tondi, il lupetto nero e i jeans senza cintura), fortunatamente rinunciando alla mimesi estetica tanto cara agli americani. Leggermente fastidiosa l'onnipresenza di Kate Winslet, nel ruolo della fedelissima, efficiente e quasi materna assistente (“moglie da ufficio” come si autodefinisce nel film), che consiglia Jobs nei momenti di più caparbia e insensata ostinazione, sia nel lavoro, sia nel rapporto tormentato con la figlia e la ex compagna. Un buon film nel complesso, ben girato e ben sceneggiato.

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