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L'uomo che cadde sulla Terra

Regia di Nicolas Roeg vedi scheda film

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La recensione su L'uomo che cadde sulla Terra

di spopola
8 stelle

Un film raccontato tutto in soggettiva che evidenzia e mette in luce soprattutto le sconfitte della nostra civiltà, i nostri timori e le nostre solitudini, con un andamento che assume spesso la forma di un delirio psichedelico intrigante ed allusivo accentuato dai frequenti flash-back dei ricordi e sorretto dalla ispirata interpretazione di Bowie.

Il romanzo di Waler Tevis dal quale è tratto il film, denuncia con straordinario tempismo, tutto il marciume e l’ipocrisia razzista che un mondo corrotto e corruttibile come il nostro, può mostrare a chi venga da un “altrove” qualsiasi, ma può essere benissimo letto anche come un saggio che anticipa e illustra i conflitti e i problemi che emergono quando ci si deve confrontare con una “diversità” e soprattutto quanto sia davvero difficile farci i conti ed accettarla senza temerla ed avversarla.
In effetti, in quegli anni la fantascienza era spesso usata non solo per raccontare, esorcizzandole un poco, le nostre paure, ma anche per anticipare problematiche ancora embrionali indirizzate verso il sociale, e metterci in guardia contro i pericoli di un degrado ambientale che poteva alla lunga mettere in discussione la sopravvivenza della specie, senza una adeguata difesa conservativa  delle risorse naturali necessarie al mantenimento della vita (l’altro tema indirettamente presente nella storia).
E’ dunque un discorso importante ed ecologicamente corretto quello di Tevis, una specie di piccolo insegnamento “etico” (del resto è  atteggiamento tipico del genere fantascientifico “fare la morale”, quel tentare cioè  di chiarire – denunciandoli - i rischi a cui va incontro il reale, utilizzando esemplificazioni che, proprio al fine di essere più incisive, si sviluppano necessariamente sul versante del “catastrofico” ipotetico, come appunto nel caso un questione).
Il film ne riprende con fedeltà  le tematiche, ma più che amplificarle con l’efficacia esplicativa delle immagini, le rende dinamiche dotandole di un fascino ambiguo, dono “spontaneo” della presenza carismatica di David Bowie.
E David Bowie è davvero la chiave di volta di tutto il film, l’elemento “fondamentale” per caratterizzarlo davvero e rendere “credibile” ciò che racconta, e farlo diventare così più reale del vero (il film è del 1976, e siamo quindi ancora attigui come datazione alla folgorante esplosione delle ambiguità  straordinarie del glam rock, colorata corrente musicale della quale Bowie oltre che nome di punta,  fu anche pioniere e profeta con l’androginìa delle forme e gli atteggiamenti fortemente provocatori tendenti ad evidenziare una personalità quasi aliena: il suo Ziggy Stardust,disco basilare per la definizione della mitologia del “trasformismo” canoro/visivo della sua arte, è del 1972). E dunque, il suo corpo, la sua voce, le sue polivalenze sessuali, i suoi aforismi, i suoi amori, le sue stesse canzoni, fanno gioco  al film e lo fanno crescere e lievitare (oggi probabilmente questo rapporto empatico fra attore e personaggio si avverte un po’ meno, ha una minore presa emotiva, ma allora posso assicurarvi che fu determinante, costituì la base prioritaria per fare della pellicola quel piccolo cult osannato e venerato che è stato e per assicurargli un grande successo di incassi e di visibilità). La sua presenza quale possibile alieno che da  al personaggio uno sconcertante spessore, è qui doppiamente giustificata quindi, poiché vale sia  per l’attore che per la figura “fisica” e la  storia anche privata che si porta dietro, quasi come se la finzione coincidesse “esattamente” con la vita trovando un punto di incontro (e di confronto) sullo schermo.
Mayerberg (lo sceneggiatore) e Roeg (il regista) attraverso questa indovinata “identificazione” mediata, offrono allo spettatore la possibilità di compiere proprio materialmente e quasi in prima persona, quei viaggi nello spazio percorsi all’interno della memoria di Tommy Newton – l’alieno venuto sulla terra a cercare la salvezza per la sua gente - che gli consentono di prendere conoscenza visiva  di piccoli frammenti e rimembranze  di quello che è(ra) il mondo nel quale viveva e dal quale proviene il protagonista, di ritornare con lui in quel deserto dissestato (potrebbe essere il pianeta Terra di un futuro “prossimo venturo” quel devastato, apocalittico scenario che ci viene presentato),  di rivivere i drammatici momenti della separazione dalla sua famiglia, di condividere il presagio di morte incombente che aleggia intorno (i flash-back che mostrano la fine del mondo di Newton, ripropongono la definitiva consunzione, ipotetica, presente o futura, della moglie e dei figli, oltre che dell’intero pianeta e rappresentano per questo un doloroso avvertimento: che tutto ciò avvenga in quello stesso momento non ha alcuna importanza: è certo che avverrà o che addirittura è già accaduto, e questo determina un disagio sensoriale persino avvertibile “a pelle”).
Con delicata cura e particolare interesse, ci viene rappresentata  anche come si manifesta la sessualità in questo mondo “altro”: è una sessualità diversa,  incredibilmente piacevole e coinvolgente, dove sembrano abbandonati per sempre certi ruoli e riti di dominio che ci appartengono. Agli amanti di questo pianeta  basta infatti sfiorarsi, toccarsi, accarezzarsi per fare sesso: è tutto il loro corpo ad emettere un liquido “spermale” che li avvolge, li sublima in un’unione perfetta (ed è una rivelazione scioccante per lei che “pretende” di amarlo quello scoprire improvviso il  vero aspetto del non-uomo che ha accanto: privo delle unghie delle dita dei piedi e delle mani, senza capezzoli e capelli, e con le iridi verticali come quelle di un felino. Al vederlo così nelle sue esatte sembianze, la ragazza non solo vomita, ma si orina letteralmente addosso, una delle scene di culto che ha segnato l’immaginario collettivo dell’epoca).
In compenso però, questi esseri hanno purtroppo le stesse capacità tutte umane di sottomettersi con opportunismi valutativi, al reale, al quotidiano: possono abbrutirsi  come noi e forse ancora di più, almeno una volta giunti sulla Terra che li contamina con i forti egoismi che esprime. Per questo Newton inizia a bere, a corrompersi, e lentamente, anche lui si trasforma interiormente in un vero uomo, ne riproduce almeno  molti dei suoi vizi capitali.
Le lacrime, lo smarrimento, il rimpianto, gli appartenevano da sempre, da prima, ma non erano le sole cose che possedeva. Alla fine però, mentre sul suo vero pianeta tutto muore anche per il suo fallimento, sembra che non gli si rimasto davvero nient’altro che quello e  una rassegnazione più terribile della sconfitta.
In questo c’è della filosofia, magari spicciola, che, però, ha certamente il suo effetto: Newton sembra quasi comprendere che probabilmente è così che vanno le cose e che difficilmente potranno cambiare e non è consolante pensare che se fosse stato un terrestre a finire sul suo pianeta, anche questi avrebbe certamente  subito la sua stessa sorte: maltrattato, malmenato, distrutto (che è poi il destino riservato a chi è in qualche modo diverso, fa parte di una minoranza “fastidiosa”  intelligente e sensibile, ma "avversa").
La forza, la violenza bruta e cieca, rimane dunque appannaggio esclusivo dell’ignoranza, dell’assenza di ricettività e comprensione (e sembra quasi di essere già proiettati nella contemporaneità dei nostri giorni con i tanti “alieni” che vengono rifiutati e isolati: non è un caso allora che sia stata di nuovo la fantascienza a riappropriarsi “metaforicamente”  di  una realtà analogamente disturbante, con il recente District 9).
Pessimisticamente, si è costretti forse ad immaginare l’esistenza di una legge universale totalmente negativa che coinvolge  l’esistere in tutti i suoi aspetti, che vede nella sopraffazione e nella diffidenza la sua regola prima, l’unica da rispettare, quella però che non lascia alcun spazio alla speranza,  neanche ipotizzando un “altrove” possibile, perché il finale senza nulla aggiungere o dire, ma solo “constatando”, è in fondo di un disfattismo abissale.
 
Un mondo lontano, un’aridità che ha esaurito le fonti di nutrimento e non lascia speranza di vita; uno stadio di evoluzione diverso ed estremamente avanzato rispetto a quelle che sono le conoscenze tecniche e scientifiche terrestri;  le possibilità di sopravvivenza affidate al successo di una “missione impossibile” affidata a un essere che, fattosi uomo, è alla ricerca  e alla conquista delle risorse idriche necessarie a mantenere vivo il suo universo e chiamerà se stesso – e non certo casualmente -  Newton per il suo travestimento umanizzato di “uomo  caduto sulla Terra” in cerca di salvezza (e dove invece  finirà per perdersi definitivamente): questo è in sintesi ciò che racconta il film, ed è quasi tutto antefatto rivelato attraverso quei rapidi  flash-back mnemonici che fanno emergere ricordi e pensieri dalla mente di un alieno, novello messia arrivato sul pianeta – il nostro – scelto perché conosciuto attraverso i suoi libri, come il “Pianeta dell’Acqua”.
Lo incontriamo per la prima volta in prossimità di un paesino americano, ai margini del deserto, quasi del tutto digiuno di conoscenze terrestri questo sconosciuto enigmatico personaggio “di un altro mondo”. Vende una fede: finge di essere un uomo che non ha più la sua donna e racimola così i suoi primi dollari. Di fedi, in compenso, ne ha tante, potrà di conseguenza fare buoni affari, far partire da lì la sua fortuna… ha già imparato molto bene le avide leggi  del denaro…
Questa è la storia di un extraterrestre dagli occhi di gatto che  è arrivato fra noi per portare a termine ad ogni costo una missione vitale per il suo popolo. Grazie alle sue straordinarie capacità, diventerà ben presto, col nome di Thomas Jerome Newton, proprietario di un immenso impero industriale, segno “che ci sa fare” e che è pericoloso. Le sue intenzioni sono pacifiche, ma le idee non conformi che esprime faranno paura e anche lui  verrà tradito  e “venduto” al governo dittatoriale del paese, interessato soprattutto ad assorbire le sue ricchezze: venuto come si è visto alla ricerca dell’acqua per rivitalizzare la propria terra inaridita,  troverà invece quaggiù la dannazione: denaro, sesso, potere, alcol, incomunicabilità, saranno gli elementi che lo perderanno definitivamente.
Bryce:              Non provate rancore per quello che è successo?
Newton:            Rancore? No. Probabilmente sareste stati trattati allo stesso modo se foste giunti sul                         nostro pianeta.
Bryce:              Allora non c’è possibilità?
Newton:            Di cosa? Naturalmente che c’è una possibilità. Voi siete uno scienziato dottor Bryce, dovreste sapere che esiste sempre una possibilità. Avete bisogno di denaro?… Fatemelo sapere se ne avete bisogno: io non ci vedo più tanto bene, però di denaro ne ho sempre.
Bryce:                          Credo che il signor Newton ne abbia avuto abbastanza, vero?
Newton:            Lo credo anch’io, purtroppo e penso che ormai sia tardi per rimediare…
È lo sconfortato, rassegnato colloquio che conclude “pessimisticamente” un film raccontato tutto in “soggettiva”, dalla parte del protagonista (che evidenzia di conseguenza, e mette in luce, soprattutto le sconfitte della nostra civiltà, i nostri timori e le nostre solitudini), con un andamento che assume spesso la forma di un delirio psichedelico intrigante ed allusivo (accentuato dai frequenti flash-back dei ricordi) e sorretto dalla ispirata interpretazione di Bowie.
Indubbiamente rivista adesso, la pellicola  - a tratti un po’ discontinua, ma che contiene molte sequenze assai indovinate e  felici, anche sotto l’aspetto dell’immaginazione visiva (caratteristica prioritaria e importante della poetica di Roeg) – risulta essere un po’ troppo prolissa e lunga soprattutto nella seconda parte (la versione italiana è di 118’ ma in originale la sua durata era addirittura di 138’). Rimane comunque uno dei più significativi esempi di fantascienza “intellettuale” e politicamente impegnata che ha perso forse un po’ della sua “freschezza” ma non ha diluito la qualità e l’importanza del suo messaggio.
Come giustamente osserva il Morandini, “ pullula di problemi irrisolti, lacune narrative, labirintiche giravolte, bruschi passaggi temporali, situazioni accennate e non sviluppate, ma a mio avviso, oltre che dalla fascinazione attrattiva del suo carismatico protagonista, è proprio da tali “ipotetici” difetti che sgorga  la sua vitalità e la sua forza, che si confermano entrambe  inalterate nel tempo nonostante un eccesso di ridondanti barocchismi, tutti imputabili alla personalità debordante del regista, e questo nonostante che i molti anni trascorsi (accade spesso alle pellicole troppo “legate” a una modalità narrativa corrispondente al periodo in cui ha visto la luce) lo abbiano fatto inesorabilmente “passare di moda”.
 
E’ impossibile (o per meglio dire non sarebbe onesto farlo) immaginare comunque il lavoro di Roeg (inteso come “autore”, non come routiniero mestierante) enucleandolo e tenendolo fuori dai fermenti culturali che caratterizzarono gli anni ’60 del secolo scorso. Il suo stile inconfondibile (sin da quando lavorava come direttore della fotografia) si è sempre nutrito infatti delle suggestioni psichedeliche dell’epoca, che venivano da lui rielaborate in audaci e innovative soluzioni cromatiche. Indicativo dello stile di Roeg (e  qui non aveva ancor assunto la responsabilità della regia), è un titolo come La maschera della morte rossa di Roger Corman, film visionariamente barocco che sembra anticipare addirittura certe soluzioni visive che saranno poi tipiche delle pellicole di Peter Greenawey che vanno fino ai primissimi anni ’90, addirittura con qualche reminiscenza del tardo Fellini, quello della decadenza senile: colori densi e pastosi usati in funzione espressionistica che tendono a sottolineare “narrativamente”, i conflitti che agitano l’animo dei protagonisti, ridondanze ed eccessi “stilistici” in abbindanza.
Divenuto regista in proprio,  Roeg (l’esordio con Sadismo, sia pure girato in condominio con Donald Cammell fu davvero folgorante) continuerà questa sua ricerca espressiva accentuandone progressivamente gli aspetti più onirici, realizzando film all’epoca ritenuti assolutamente memorabili (solo il tempo e le mode ne ha appannato un po’ l’impatto, salvo alcune eccezioni) come il cult Don’t Look Now (in Italia  rititolato A Venezia, un dicembre rosso shocking)  nel quale il regista riesce felicemente nell’impresa di reinventare la città lagunare, riprendendola come se si trattasse di un labirinto di Escher. In questo modo, la vicenda dell’architetto inglese in vacanza a Venezia insieme alla moglie per riprendersi dallo shock della morte della figlia, diventa un folle incubo allucinato che non mancherà di suscitare ammiratori/imitatori in tutto il mondo. Basti pensare a Lucio Fulci e al suo classico 7 note in nero o al Paul Verhoeven olandese de Il quarto uomo per comprendere la portata della sua influenza. Roeg  piano piano  comincerà però a segnare un po’ il passo, con alcune sempre più rare impennate ugualmete interessanti e degne di menzione, come il sottovalutato Il lenzuolo viola con Teresa Russell, Art Garfunkel e Harvey Keitel, e sempre più frequenti scivolate verso un quasi attonito non riuscire più ad adattare ed adeguare il suo particolare mezzo espressivo alle nuove esigenze della creatività artistica che si è nel frattempo evoluta in altre direzioni, che lo fanno lentamente declinare e diventare alla fine un triste (per la sua incapacità di conformarsi al mutare del gusto) e un po’ nostalgico, anche se per molti versi  affascinante, monumento ad un cinema che si era fatto coraggiosamente carico di realizzare le utopie linguistiche e la voglia di rompere con il passato di un’intera generazione.
Ma i tempi  delle sue conturbanti provocatorietà linguistiche che facevano tendenza, sono ormai lontani e sempre più irraggiungibili: cosicché,  trasformatosi  sempre più in disincantato e un po’ distratto osservatore, si rifugerà lentamente nella routine e nella “maniera”. Non possono che essere valutati in questa prospettiva i deludenti risultati che raggiunge con le opere immediatamente successive a partire dal discusso - e discutibile - Eureka, che comunque nel suo voler essere una parabola sul possesso e l’avidità umana costruita come un puzzle fatto di allusioni e ricorrenze misteriose ambiguamente affascinanti e per il quale si sono scomodati riferimenti e derivazioni molto ingombranti, che intendono alludere persino a Greed e Citizem Kane, possedeva ancora qualche traccia della sua antica,  autentica e debordante personalità, per degradare lentamente verso un lavoro dichiaratamente alimentare come Chi ha paura delle streghe? comunque tecnicamente ancora inappuntabile, e finire nel confuso e delirante esercizio horror del misticheggiante Oscuri presagi del 1992 che per certi versi costituisce ancora un curioso esempio della personale via percorsa dal regista per rappresentare il “fantastico” , ma che proprio per questo, dimostrando clamorosamente quanto ormai il suo cinema sia fuori sincronia coi tempi, diventa il titolo che sancisce amaramente e crudelmente il suo essere ormai  anacronisticamente “fuori tempo massimo”.
 
L’autore del romanzo a cui ci si è ispirati per il film, non è solo scrittore di racconti fantascientifici, (tanto è vero che il lavoro che lo rese famoso fu - nel 1959 - The Hustler da cui è stato poi tratto l’omonimo film - in italiano Lo spaccone - diretto da Robert Rossen e interpretato da Paul Newman, e che è dovuto alla sua penna anche il sequel The Color of Money del 1984, trasferito anch'esso sullo schermo da Scorsese ancora con Paul Newman).
Walter Stone Tevis (questo il suo nome completo)  nacque a San Francisco il 28 febbraio del 1928 (almeno così dice Wilkipedia, perché alcune fonti dell’epoca indicavano invece nel 1924  l’anno della sua nascita). Si laureò in storia dell’arte e della letteratura nel 1961 all’Università dello Iowa  diventando poi, oltre che autore di romanzi, anche docente universitario (cattedra di Inglese prima nel Kentucky e poi  all’università dell’Ohio).
Nel 1984 lasciò definitivamente l’insegnamento per potersi dedicare a tempo pieno alla scrittura, ma purtroppo fu una cosa di breve durata perché la morte lo colse all’improvviso per una crisi cardiaca,  il 9 agosto di quello stesso anno.
A parte i titoli sopra citati, il romanzo che più è legato al suo nome è proprio questo The Man Who Fell to Earth del 1963 (il primo e il più succoso, fra le non numerosissime incursioni fatte in questo terreno: più o meno una quindicina di storie pubblicate dalla rivista Galaxy, particolarmente in auge negli anni ’50 - quella per intenderci che lanciò scrittori come Philip K. Dick, Frederik Pohl e Robert  Sheckley - seguite per lo meno da altri due romanzi di minor successo rispetto a The Man Who Fell to Earth,  ma ugualmente interessanti: Mockinghird (1980)  con il quale si aggiudicò il premio Nebula ma che ebbe uno scarso successo di pubblico, che descrive la visione di un prossimo e disumanizzante futuro degli Stati Uniti, visto con gli occhi di un robot la cui massima aspirazione è quella di provar sensazioni e sentimenti umani, e The Steps of the Sun (1984) che racconta il tentativo di un uomo – Nen Belson – di restituire dignità agli Stati Uniti – sempre centrali nei suoi scritti – ridotti in povertà dalla conquista dello spazio. Anche qui, l’interesse dominante di Tevis, come già in The Man Who Fell to Earth, non riguarda tanto gli avvenimenti della storia, ma bensì ciò che accade “dentro” l’anima del protagonista. Altre e sue pubblicazioni di  un certo rilievo e interesse sono: una collezione di brevi racconti di science-fiction pubblicata nel 1983 con il titolo Far from Home e La regina degli scacchi.
La lettura attenta di tutto ciò che ha  prodotto, ci fa rilevare delle costanti nei percorsi “comportamentali” dei  vari personaggi, che sono  in  pratica tracce più o meno “dirette” che si riferiscono al grave problema di dipendenza dall’alcol che ha assillato lo scrittore per oltre 17 anni.
 
Non si può parlare pero di questo film senza concentrare l’attenzione anche sull’astro “David Bowie” rivelatosi come si è visto, con assoluta prepotenza proprio agli inizi degli anni ’70, e destinato a influenzare le più importanti vicende della musica rock inglese (se ne può avere una idea precisa e attendibile, visionando l’interessante Velvet Goldmine di Tod Haynes).
La formazione musicale di Bowie (non analizzo qui gli sviluppi successivi della sua carriera  che con differenti ascendenze ispirative si spinge fino ai giorni nostri) è tutta dentro le coordinate del rock cosiddetto decadente di Lou Reed, soprattutto quello del periodo berlinese, e di quello urbano degli Stooges di Iggy Pop, dei quali produce Raw Power,  il terzo album registrato in studio della band.
La peculiarità dello stile bowieano di questo primo periodo, consiste  sostanzialmente nell’amplificare il versante scenografico delle intuizioni già espresse  proprio dai già citati Iggy Pop e Lou Reed, ponendo così le basi per quello che verrà definito poi glam rock e che per certi versi è molto affine all’estetica punk. Nonostante che John Lennon abbia definito quello “stile” rock’n’roll con il rossetto, non si può assolutamente disconoscere l’autentica ventata di novità portata nel panorama musicale dell’epoca da Bowie, grazie anche a una attenta gestione della sua persona pubblica sempre in bilico fra il fascino suadente della seduzione androgina e un’aggressiva, rivoluzionaria estetica gay.
Attraverso album come Space Oddity e The Man Who Sold the World (ripreso in versione acustica  più o meno una quindicina di anni dopo anche dai Nirvana del compianto Kurt Cobain) prende forma il progetto Ziggy Stardust and the Spider From the Mars che a metà degli anni ’70, come già detto, lo consacrerà definitivamente stella di prima grandezza del firmamento rock britannico. Con Ziggy Stardust,  Bowie mette a punto così la sua personale mitologia da cui prende successivamente corpo la figura di The Thin White Duke (il sottile duca bianco) che sarà una costante  che attraverserà  tutto il percorso  dell’artista, anche se contraddistinto da innumerevoli cambiamenti di stile e di look. Al periodo glam segue infatti quello soul, segnato da album come Young Americans.  Ma il momento della carriera di Bowie che può essere  considerato una delle punte di maggiore eccellenza anche qualitativa, è quello collegato alla fattiva collaborazione con Brian Eno, che si snoda attraverso album caratterizzati da un forte e innovativo uso dell’elettronica. Si succedono così a breve distanza l’uno dall’altro, titoli come Low, Heroes e The Lodger, tutti in sintonia con il nichilismo formale ed esistenziale che caratterizzava il contemporaneo fenomeno del punk. Poi però la sua arte anche ispirativa, sembrò declinare un poco: dopo un disco notevole come Scary Monsters (nel quale si avvaleva della collaborazione di Robert Fripp) e un buon prodotto di routine come Let’s dance, si susseguirono tuta una serie  di lavori un po’ sbiaditi che sembrarono non rendere più giustizia al talento e alla fama dell’uomo caduto sulla terra.
Il resto sarà ancora lungo, ma è storia successiva, magari analogamente importante, ma non pertinente al discorso collegato al film, e quindi qui non proponibile.

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