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The Hateful Eight

Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film

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La recensione su The Hateful Eight

di SredniVashtar
7 stelle

Tarantino accentua il proprio citazionismo culturale e cinematografico. Sappiamo già come la pensa: se vogliamo saperlo meglio, questo film non ci deluderà.

Il cinema di Tarantino ha caratteristiche peculiari, che si accentuano con il trascorrere degli anni (anche dell’autore). Già in Le iene si assisteva a dialoghi “esplicativi” poco congrui con il contesto e la personalità dei protagonisti: banditi che filosofeggiano, puttane che stilano categorie etiche, assassini taoisti, etc. Si può forse parlare di un cinema a forte connotazione verbale-didascalica. Può piacere o no. The Hateful Eight è in tutto e per tutto un giallo-thriller di ambientazione casualmente western in cui Quentin si prende i propri tempi e modi, scegliendo di far durare 10 minuti dialoghi cui basterebbero 10 secondi. Può piacere o no.

 

In questa pellicola l’ambientazione è claustrofobica, ma non opprimente: nove persone sono riunite in una stanza, non si sa bene chi sia chi e tutti sospettano di tutti. Il film è ridondante di particolari forse superflui ma non inutili a creare l’atmosfera (un esempio su tutti: la porta d’ingresso senza più maniglia, da reinchiodare ogni volta che viene aperta). C’è quindi una gran cura del dettaglio e dell’inquadratura, come il maestro Sergio Leone ha insegnato.

In più di due ore e quaranta, pian piano la matassa si dipana, mentre dalla scena escono progressivamente i morti ammazzati. Può piacere o no: c’è poco da fare, è lo stile tarantiniano. Che comprende anche le consuete scene pulp, inutili quanto quelle di Dario Argento, ma che di nuovo costituiscono una precisa firma. Gli attori-feticcio ci sono quasi tutti: Roth (qui impiegato marginalmente), Madsen (anche lui non sotto i riflettori), Russel e Jackson. A essi si associano una bravissima Jason-Leight e un espressivo Goggins (che fa lo scemo del villaggio quasi fino alla fine), più un invecchiato Dern. “Guest star”, mascellone Tatum.

 

È inutile cercare di rendere la morale dei dialoghi e dei temi che vengono affrontati durante la vicenda: Tarantino fa un cinema in cui vuole esprimere innanzitutto sé stesso, i propri ricordi e ossessioni. Segnaliamo solo che per una volta non ci delizia col suo podo-feticismo (fa troppo freddo per mostrare donne scalze).

 

A mio avviso, il film non è niente male. Il difetto principale sta nell’eccessiva lunghezza: sembra sempre che il regista abbia dimenticato di dirci qualcosa e lo inserisca quindi in una scena successiva. Ne risultano almeno tre scene che potevano costituire ciascuna un finale, come in quei brani rock in cui la chitarra solista o il sax-tenore non vogliono proprio saperne di farla finita. Un altro difetto, ma in questo caso solo sotto il profilo commerciale, sta nella sua natura di thriller: una volta scoperto l’assassino, non avrà senso voler rivedere il film.

 

È senz’altro molto meglio di GrindHouse e anche di Dal tramonto all’alba, ma certo non può competere con Pulp Fiction, di ben altro respiro. Rimane però un film da vedere.

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