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Revenant - Redivivo

Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film

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La recensione su Revenant - Redivivo

di GIANNISV66
9 stelle

Utilizzando lo sfondo di paesaggi meravigliosi e indifferenti, memore della lezione di grandi maestri della settima arte (in primis Werner Herzog), Iñárritu dipinge un quadro a tinte glaciali della desolazione morale a cui può giungere l'uomo sopraffatto dalla potenza della natura, il cui emblema è la violenza ferina di un orso.

 

La natura può essere meravigliosa e spietata allo stesso tempo, esattamente come l'essere umano può rivelare sentimenti di solidarietà o un individualismo spinto all'esasperazione. La natura può dare sostentamento e occasioni di ricchezza ma può anche assumere i panni di un mostro tremendo (in questo caso un orso grizzly) portatore di morte.

Alejandro González Iñárritu abbandona le speculazioni (amare) sul mestiere di attore (quelle che erano alla base del suo precedente lavoro) e cambia completamente prospettiva, passando dai claustrofobici corridoi di un teatro alla maestosità di panorami sconfinati, imponenti e meravigliosi da togliere il fiato.

The Revenant è un film talmente bello e potente nella sua parte immaginifica, da rischiare di far passare in secondo piano la storia che racconta e le riflessioni che porta con sé.

Storia che vede sviluppare la sua trama nel selvaggio West americano d'inizio XIX secolo, eppure se l'ambientazione è quella di un western (i cacciatori di pelli che hanno popolato la fantasia di chi col mito del West è cresciuto) non siamo affatto nell'ambito di un film western tradizionalmente costruito. Revenant - Redivivo è piuttosto la storia di un viaggio, di un duplice viaggio che vede da una parte un percorso materiale, ovvero il cammino di un uomo costantemente a un passo dalla morte eppure tenuto in piedi da un implacabile desiderio di vendetta, che è anche un desiderio di giustizia (e le due cose, almeno in questo caso, non sono assolutamente in contraddizione), e dall'altra un percorso morale, ovvero la lotta contro le paure più profonde e le pulsioni più animalesche che si possano nascondere in un animo umano.

In una terra attanagliata da una morsa di gelo non vi è consolazione alcuna, né si può sperare di trovare aiuto da parte dei propri simili. A contatto con le privazioni l'uomo rivela di avere ancora ben ancorata nei suoi recessi più profondi quella faccia oscura che ci si illude possa essere stata annientata da secoli di civiltà, homo homini lupus viene da pensare durante la visione, giunge quasi con ovvietà il sospetto che Iñárritu abbia avuto a mente la frase simbolo del pensiero di Thomas Hobbes mentre creava questa storia.

Un film bellissimo, diciamolo senza mezzi termini, un film che abbina un uso straordinario della fotografia (di cui abbiamo già tessuto più sopra gli elogi) a una storia densa e appassionante eppure per nulla banale. Una storia in cui all'occhio più attento non possono sfuggire i richiami ai maestri del cinema (e non solo): quell'immagine della fuga in barca lungo il fiume Missouri con gli occhi dei sopravvissuti sbarrati dall'angoscia di essere in balia di un nemico crudele che aspetta solo l'occasione giusta per farli a pezzi rimanda direttamente a un'altra imbarcazione che oltre trentacinque anni anziché discendere lungo il fiume alla ricerca di un salvezza disperata ne risaliva un altro, ben più lontano, per scontrarsi con l'orrore. Ma ancora più che ad Apocalypse Now si presenta evidente il riferimento a Joseph Conrad (che ispirò il film di Coppola) e alla sua poetica sulle tenebre nascoste nel cuore dell'uomo.

L'uso poi sapiente ed emozionante di straordinari e potenti paesaggi naturali non può non riportare a un altro grande maestro, Werner Herzog, uno dei cineasti più bravi a sfruttare l'elemento naturale.

In un certo senso il tremendo Fitzgerald, personaggio la cui umanità sembra scarnificata come l'orrenda cicatrice che gli deturpa il cranio scalpato, ricorda per la sua assoluta indifferenza alla sofferenza altrui e per un utilitarismo personalistico, che azzera completamente quella dimensione solidaristica che è propria della civiltà, quell'Aguirre che proprio Herzog pose a protagonista di un viaggio delirante.

Si è parlato di western, ma qui siamo ben lontani da pellicole, pure molto belle, che hanno dato nuova dignità al genere, come Open Range o Sweetwater. Piuttosto la parentela più evidente è con un altro western atipico, quel Dead Man di Jim Jarmusch che a sua volta metteva in primo piano lo sconcerto di un'anima pura di fronte alle bestialità dell'uomo in un ambiente ostile.

Iñárritu coglie dunque in pieno l'obiettivo, aiutato da un cast straordinario in cui spiccano i due protagonisti: da una parte un Leonardo Di Caprio nei panni di Hugh Glass, ruolo di poche e scarne parole ma in cui rivela la sua grande bravura nel raccontare, attraverso l'intensità del suo sguardo, il dolore e la rabbia del protagonista, e soprattutto un attaccamento alla vita che travalica il puro istinto di sopravvivenza. Dall'altra John Fitzgerald, ovvero Tom Hardy, cui invece le parole non mancano, figura repellente (lo si è detto più sopra), come repellente ai nostri occhi appare il suo egoismo che pure è parte dell'essenza umana, piaccia o meno. Personaggio graffiante e ironico, che si beffe non solo dei suoi simili ma anche della divinità, descrivendo Dio come uno scoiattolo buono solo per essere mangiato.

E in mezzo ai due, sia pure in ruolo più defilato, Domhnall Gleeson nei panni del capitano Andew Henry, a rappresentare la scintilla dell'umanità che cerca di farsi largo in mezzo a tanta desolazione.

Siamo di fronte a un capolavoro? Aspettiamo a dirlo, sicuramente non ci si sbaglia a dire che siamo di fronte a una delle pellicole che più marcheranno questo 2015 cinematografico appena passato.

 

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