Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film
(Old) New World.
Opera-monstre che, mostruosamente, ammaestra il respiro, i rumori, l'essenza - le manifestazioni tutte - della Natura per farne maestosa mostra di un survival-revenge movie "dell'anima": nell'inseguire (alti) modelli contemplativi malickiani-herzoghiani-nationalgeographichiani Iñárritu, forse troppo preso (da sé?), trascura la contemplazione, il silenzio, la stratificazione spirituale. L'inafferrabile appare alla portata, il sensoriale azzanna lo schermo, la bellezza selvaggia dei luoghi è domata per esigenze di copione e di confezionatura filmica. Il cineasta messicano però sa come fare/provocare Cinema: nel fluido sistematico/programmatico susseguirsi degli elementi della Terra - cervi, bufali, meteoriti, fiamme, acque, boschi, tempeste, gelo - dimora l'idea di un linguaggio che fa dell'estrema, crudissima, enfatica rappresentazione realistica uno studio - in rosso, virato sul/nel nero - sull'animo (e sul/i corpo/i). Copioso, sovraccarico, autoreferenziale, pretenzioso, forse persino inautentico, ma in grado - tra le tante righe e pieghe d'un narrato/impaginato barocco - di colpire e incidere sulle ferite aperte da traumi violenti. Violento il pianosequenza dell'incipt - furioso, avvolgente, tesissimo -, (iper)violento il già cult scontro brutale Orso-Uomo, violenta l'esibizione della figura martoriata d'un cristico DiCaprio, violento il conflitto tra civiltà/umanità («andiamo a sparare un po' di civilizzazione su quei maledetti» la mission del buon capitano), violenta l'ossatura immaginifica (Lubezki fuori concorso in qualunque concorso per manifesta superiorità), violento lo stridore della partitura musicale, violento lo scontro finale Hardy/DiCaprio da "cacciatori nella neve" (insozzata di sangue). Cifra stilistica e dichiarazione d'intenti: «Nous sommes tout sauvages» si legge sul cartello appeso al nativo appeso all'albero, impiccato per volontà di dio; così Iñárritu sommerge il racconto e le questioni morali nel maelstrom ferino di immagini-suoni-colori-(r)umori-voci-corpi che inghiotte senso, sensi e sensazioni. Come la fuga nelle gelide feroci acque del grande fiume, come la folle caduta da un dirupo dopo una folle caccia, come il corpo nudo del risorto dentro il cavallo eviscerato: un ancestrale, simbolico bisogno di protezione prima della definitiva rinascita; mentre le fratture del passato tornano in veste di (e)stasi oniriche sospese tra paure evidenti e desiderio di vendetta, e i sussurri nella lingua nativa dal calore enigmatico e antico diventano un'eco di ricordi del figlio (barbaramente ammazzato). Le origini del nuovo mondo - di tutti i mondi - sono intrise di morte e disumanità, sembra volerci dire il film: e allora cosa meglio di una qualunque storia di resurrezione e vendetta per rappresentarle? «Io non ho paura di morire, ormai. Sono già morto», l'inequivocabile sentenza. Dopo il duello finale, battezzato nel rossosangue, il tornato alla vita guarda in camera: la dissolvenza in nero non ne annulla il respiro. Di morte.
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