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Revenant - Redivivo

Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film

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La recensione su Revenant - Redivivo

di pippus
8 stelle

Revenant, termine francese per indicare un fantasma, un resuscitato, redivivo. Quindi... alcuni miracoli sono concessi!

 

Non penso si possano considerare queste mie riflessioni una recensione nel senso stretto del termine; non accennerò alla trama né posterò immagini in quanto, per fisiologica saturazione, ci escono, ormai la prima dalle orecchie e le seconde dagli occhi. Le mie non ambiscono essere altro che una serie di considerazioni personali  sugli aspetti “tecnici” e sulle motivazioni che possono aver indotto Inarritu a realizzare tale opera con le modalità che la caratterizzano.

Per "affinare" il mio pensiero, dopo la lettura di varie opinioni presenti sul sito, mi sono documentato sulla storia di Hugh Glass (per quanto possibile) vedendo una prima volta il film per poi leggere tutto quello che poteva essere attinente (anche tecnicamente) alla sua realizzazione. Dopodiché mi sono avvalso di una seconda visione con il vantaggio di non dover più seguire la vicenda con attenzione, e riservando quindi quest’ultima agli aspetti meramente tecnici.

In primis non mi arrovellerei eccessivamente i neuroni nel cercare collegamenti, citazioni o paragoni con altri registi o attori,  propenderei piuttosto per considerare l’opera di Inarritu per quella che è, cioè la trasposizione, non troppo fedele, di un romanzo che prende spunto da una storia realmente vissuta  e, come tale, può piacere o meno, sicuramente può essere spunto per discussioni e riflessioni.

Dopo la trafila sopra accennata - le due visioni e le successive considerazioni -, sono pervenuto alla convinzione che l’unico collegamento certo sia quello con lo stesso Inarritu e con le sue precedenti opere: da “Amores Perros” a “ Birdman”. I film del grande regista messicano ( che per sua stessa ammissione non si è mai avvalso di corsi o quant’altro per diventare tale), seppur molto diversi tra loro hanno un denominatore comune: la morte intesa come il trapasso. Qualsiasi ne sia la causa, incidente, malatia, omicidio o suicidio; questo è il filo conduttore dei suoi film!

I primi tre, la cosiddetta “Trilogia della Morte” (Amores Perros, 21 Grammi e Babel) sono caratterizzati da una trama tanto singolare quanto particolare che ne costituisce l’ossatura, mentre in “Biutiful e “Birdman” assistiamo al travaglio - nel primo fisico e nel secondo psicologico - del protagonista attraverso un’apoteosi registica che priorizza l’attenzione dello spettatore. In "Revenant" quest’ultimo aspetto non c’era modo di ottenerlo se non stupendo la platea con qualcosa di spettacolare! Questa è la mia impressione: Inarritu, quando firmò per la regia nel 2011, era ben consapevole dei limiti oggettivi della vicenda narrata nel romanzo di Punke rispetto alle sue precedenti opere, quindi necessitava un “escamotage” scenografico che potesse sopperire a tale carenza. Questa è la scelta attraverso  la quale il regista è consapevolmente andato incontro agli estimatori dell’aspetto visivo e, nel contempo, alle critiche dei detrattori che accusano l’opera di eccessiva inverosimiglianza. Non ritenendo Inarritu ingenuo al punto di non accorgersi che in molte scene del film la verosimiglianza sarebbe venuta meno, sono giunto a pensare che semplicemente quest'ultima non figurava tra le sue priorità (a tal proposito apro una parentesi per rimarcare che, a fronte delle scene accusate di palese esagerazione, potremmo notare piuttosto una plateale inverosimiglianza tattica - dovuta a esigenze di copione - nel momento in cui, nel finale, dopo essere usciti numerosi a cavallo di sera per cercare Hawk con l'ausilio delle torce, il mattino seguente escono il capitano Henry e Glass inspiegabilmente da soli, nonostante il maggior rischio dell'operazione e, per di più, decidono assurdamente di dividersi).

 Chiedo scusa ma vorrei evidenziare un dato di fatto: non è forse vero che la storia ci ha da sempre proposto vicende (realmente vissute)  oggetto di interesse per resoconti trasposti, in tempi più recenti, su pellicole più o meno fedeli alla storia originale? Me ne viene in mente una sulle vicissitudini di un noto personaggio storico, non propriamente coevo di Hugh Glass ma che aveva sortito un tale interesse da stimolare un centinaio (ma il numero è incerto) di autori a raccontarne la vita, prima oralmente e poi su carta (papiri), ancorché, essendo a volte eccessiva la fantasia di alcuni, altri ne decisero il confino definendoli apocrifi e riservando a soli quattro di essi l’autenticità del contenuto. Tali vicende conobbero più volte la trasposizione cinematografica con un crescendo di enfatizzazione ed effetti speciali; fino all ultima risalente al 2004 sotto la regia di Mel Gibson!

La vicenda realmente vissuta dal trapper Hugh Glass d’altra parte era già stata pubblicata nel 1923 da tal Charles Lewis Camp, molto prima quindi che Michael Punke la trascrivesse a sua volta. Ovviamente non è facile distinguere quali fatti accaddero veramente e quali siano dovuti alla fantasia dell’autore di turno. E’ concepibile poi che, decidendo di trasporre un romanzo su pellicola, la vicenda subisca un’ ulteriore amplificazione direttamente proporzionale alle disponibilità tecniche del momento (nonché del budget a disposizione). E così è stato per “Revenant”, remake di “Uomo bianco va col tuo Dio”, ottimo film del ’72 del quale riprende varie scene, ovviamente con il “realismo virtualmente aumentato” possibile oggi.

Tornando a Inarritu, possiamo facilmente comprendere quanto fosse essenziale per questo film spremere a fondo le indiscutibili capacità di Emmanuel Lubezki che, senza nulla togliere al seppur bravo Rodrigo Prieto - del quale si era avvalso precedentemente -, aveva già firmato la fotografia di “Birdman” (questo potrebbe giustificare gli indubbi accostamenti tra le sequenze oniriche di Revenant e un paio di capolavori di Malick nei quali Lubezki aveva messo lo zampino firmandoli con I suoi virtuosismi estetici). Ne otteniamo che lo spettatore, attraverso una sinergia di parametri volti a ottimizzare al massimo il coinvolgimento emotivo, si ritrova full immersion nel vivo dell’azione come raramente si era visto in precedenza. Già, e quali sono questi “parametri”? Alcuni li definirei  “attivi” e altri  "passivi”. Tra i primi ascriverei, oltre alle peculiarità delle interpretazioni e del make up (pare che anche quest’ultimo abbia una nomination), la sofisticata tecnica di ripresa alla quale, a pari merito con la regia, è dovuta buona parte dell’anima del film. Tra i secondi, in primis le location estreme, prima Canada e poi Terra del Fuoco, scelte dal caparbio messicano per ottenere il risultato prefissato. Degni di menzione poi le (per alcuni discutibili) variazioni sul tema, come la moglie e il figlio meticcio di Hugh in quanto sul testo di Punke non c’è traccia di costoro. D’altra parte teniamo a mente che Inarritu non fa mistero di essersi solamente ispirato al romanzo, senza quindi alcun obbligo di fedeltà a quest'ultimo. Nel corso della mia seconda visione, come accennavo, ho potuto prestare massima attenzione alla fotografia, avvalentesi, a quanto pare, di ogni supporto tecnico: gru, steadicam e sequenze con camera a mano, lunghi piani sequenza con movimenti della mdp a 360 gradi, riprese dal basso, dall'alto probabilmente con droni, in corsa , finanche incredibili primi piani particolarmente coinvolgenti in acqua sopra e sotto la linea di galleggiamento.

Non ho esperienza con ottiche specifiche per il cinema, ma da oltre quarant'anni utilizzo obiettivi fotografici di ogni lunghezza focale, dal fisheye al super tele e, essendo le due tipologie ottiche (cinema e fotografia) fondamentalmente basate sulle stesse leggi, ho cercato di intuire e individuare l’eccellenza del mago Lubezki. A quanto mi risulta, almeno l’80 per cento delle sequenze è girato con focali corte o molto corte (tra I 15 e I 35 mm nel parametro fotografico normale) presumibilmente a mezzo di obiettivi zoom nell’ambito super grandangolo/medio grandangolo, oppure medio grandangolo/medio tele. Accenno alla tipologia zoom in quanto, contando i cosiddetti “lens flares” delle riprese contro luce (gli aloni rotondi o esagonali che ogni lente evidenzia nell’immagine), risultano essere ben oltre la dozzina, numero di lenti tipico di tale tipologia di obiettivi. L’utilizzo di simili lunghezze focali comporta innanzi tutto la possibilità di avvicinare moltissimo il soggetto enfatizzando visivamente lo sfondo che apparirà maggiormente ampio di quanto non lo sia effettivamente e, grazie alla eccezionale profondità di campo di cui sono intrinsecamente dotati, avere a fuoco tutto il campo di ripresa, da pochi cm all’infinito (a meno che, come in alcune sequenze del film, per ottenere volutamente lo sfondo fuori fuoco questa prerogativa si voglia evitare diaframmando quindi alle massime aperture per ridurre la profondità di campo). Lo spettatore attento ed esperto potrà constatare come quelli che normalmente sono i “difetti” delle focali corte (le “linee cadenti “ che tendono a convergere verso l’alto, e l’accellerata distorsione dell’immagine agli angoli rispetto al centro quando la mdp si sposta con moto circolare), nelle mani di Lubezki diventino delle raffinatezze. La sua bravura e padronanza del mezzo tecnico gli hanno permesso di lavorare in condizioni climatiche tremende

(anche 40 gradi sotto zero) e con le sole luci naturali, altro aspetto questo di indubbia difficoltà che infatti ha reso indispensabile, in alcune sequenze, ricorrere a ottiche più “normali” dotate di più elevati valori di apertura diaframmatica.

Ovviamente ci sono sequenze perfezionate con l’ausilio della computer grafica (la scena dell’orso pare sia l’unica dove si sia avvalsi delle magie della CGI - detta anche green screen o chiave cromatica - con lo stuntman Glenn Ennis a fare l’orso e Di Caprio strattonato con dei cavi per ottimizzarne i movimenti). Digitali sono altresì la mandria di bisonti e la caduta nel dirupo di Di Caprio e relativo cavallo. Ma tali sequenze non inficiano il risultato, anzi, la loro eccelsa qualità è un punto di forza del film, come lo è stata la determinazione di Di Caprio nel perseguire il top lavorando con temperature proibitive e rischiando più volte l’ipotermia addirittura con la febbre alta, o con i 45 kg di una pelliccia d’orso sul groppone.

Una terza parziale visione si è resa necessaria per tentare di comprendere la tecnica di realizzazione del particolare piano sequenza successivo all'uscita dal ventre del cavallo: inizialmente vediamo Hugh come un puntino nero che, avanzando sulla pianura innevata, appare via via più vicino grazie a una zoomata che, staccando un attimo prima del primo piano, non permette di riconoscerne il volto; prestando però attenzione possiamo notare che le montagne sullo sfondo, riprese prima con Di Caprio frontale e poi (nella sequenza successiva) trasversale, sono curiosamente le stesse. Questo particolare (di non semplice individuazione nell'immediato), sommato allo stacco della sequenza frontale che prelude alla successiva con il primo piano di Glass che cammina trasversalmente, mi induce a concludere propendendo per un intervento di grafica computerizzata piuttosto che per una ripresa a mezzo drone, elicottero o, men che meno, con l'ausilio di un potente zoom in quanto, quest'ultimo, avrebbe evidenziato macroscopici effetti anche sullo sfondo circostante, effetti che invece risultano del tutto assenti.

Parrebbe invece potenzialmente autentica la scena del cavallo sventrato per sfruttarne il calore durante la notte. L'esperto in sopravvivenza Ray Mears ha confermato sul sito “The Telegraph” l’attendibilità della scena considerandola realistica ed effettivamente già sfruttata in passato a conferma dell’atavico attaccamento alla vita in condizioni inconsuete e al limite della sopravvivenza, anche se, a suo parere, avrebbe garantito una miglior resilienza la carcassa di un bufalo grazie al maggior spessore della pelliccia e la maggior quantità di grasso.

Il risultato finale quando si realizza un’opera di tale portata è sicuramente dovuto alle sinergie di più soggetti, e non ci possono essere falle nel sistema; la sceneggiatura presumibilmente non è di primaria importanza dato il tema, ma lo sono le superbe interpretazioni dei due protagonisti e di tutto il cast, nativi compresi. La nota di merito per le coinvolgenti musiche di Sakamoto e Nicolai mi farebbe concludere, dovendo esprimere un voto, per quattro stelle, una in meno delle cinque conferite a quello che ritengo il capolavoro di Inarritu “ Biutiful “, e mezza in meno rispetto a “Birdman”, entrambi molto meno spettacolari ma …imprescindibili per lo spirito.

Comunque Oscar oppure no, chapeau per Alejandro e company. Non tutti avrebbero avuto il coraggio e la costanza (in effetti alcuni componenti della troupe hanno desistito ) di "oscillare" latitudinalmente per passare da un inverno all’altro (bypassando quindi l’estate) per girare un film!

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