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Ave, Cesare!

Regia di Ethan Coen, Joel Coen vedi scheda film

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La recensione su Ave, Cesare!

di ROTOTOM
5 stelle

Ave, Cesare è una farsa trattenuta dei cliché del cinema della grande Hollywood ma funestata dall’uso sopra le righe dei cliché cari ai suoi loro autori.

Coenismo.

Una malattia, quella del regredire a sostantivo della peculiarità artistica, ridotta a riproposizione manichea degli stilemi che ne hanno decretato il successo, già responsabile di  vittime illustri. L’Allenismo contemporaneo ad esempio, nemesi artistica del Woody Allen ante 1997. O il silverismo, patacca per posate, coltelli soprattutto, parodia dell’Argento degli anni d’oro.
Un’epidemia o solo una naturale evoluzione del talento verso forme meno impegnative, più rassicuranti e forti di uno zoccolo duro di sostenitori affezionati al fulgore del tempo che fu?

George Clooney

Ave, Cesare! (2016): George Clooney

Non si sa. Nel caso di Ave, Cesare se di malattia conclamata si tratti o solo dei primi sintomi facilmente debellabili con una dose di antibiotico d’autore, lo dirà solo l’opera successiva a questa, e quella dopo ancora. Ma non si può far finta di nulla di fronte ad un’operina  molle come la parodia di un sistema di caos organizzato  della Hollywood anni ‘50 e della cui epoca il film cerca di ritrarne lo spirito scanzonato, finendo per arroccarsi dietro il paravento di un freddo divertissment cerebrale e cinephile snob.

Funziona a strappi Ave, Cesare la storia del Produttore Esecutivo Eddie Mannix interpretato dal legnosissimo Josh Brolin che deve riportare sul set di un sandalone la sua star (George Clooney) rapita da una fantomatica cospirazione di sceneggiatori comunisti è sfilettata da un’ironia di grassa forgia che appunto strappa i brani del film in singole situazioni che a volte funzionano (e quando funzionano lo fanno egregiamente vedi la scena in cui sul set del film sandaloni l’assistente di produzione chiede a Cristo in Croce se egli sia protagonista o meno del film, cosa che incide sulla distribuzione del pranzo ) e molto più spesso no. 
Dietro il paravento della commedia si scorge la minaccia comunista che portò nel mondo hollywoodiano la caccia alle streghe mentre gli sceneggiatori almeno nella finzione si ribellano all’economia di scala imposta dagli studios padri padroni di ogni singola parola uscita dalle menti di chi il cinema lo viveva come arte e non come pezzo non indispensabile di un ingranaggio macina soldi. La storia del cinema della macchina dei sogni anni ‘50 è abilmente descritta, corteggiata, omaggiata e riprodotta. Ma è un’opera fredda e a tratti noiosa, funestata da un montaggio incerto (nonostante la scena della sala di montaggio con l’improbabile Frances McDormand in versione topo da pellicola) che non riesce a conferire ritmo alla storia e al contempo annacqua le scene riuscite diluendole in tempistiche fastidiosamente lunghe.
Il coenismo si ritrova negli stilemi cari ai gemelli cinematograficamente omozigoti quali l’uso del nonsense,  l’inadeguatezza stupita di alcuni personaggi che hanno a che fare con una stupidità (già allora) dilagante, il tema del tempo e il metacinema. Ave, Cesare è una farsa trattenuta dei cliché del cinema della grande Hollywood ma funestata dall’uso sopra le righe dei cliché cari ai suoi loro autori.

Channing Tatum

Ave, Cesare! (2016): Channing Tatum


Il cinema che racconta il cinema, in un substrato di lettura più profondo rispetto al cedere alle sirene del sonno della prima chiave di lettura, è l’aspetto più interessante di tutta l’operazione che risolleva in parte questo film dall’oblio.  
L’esperto dirigente della major, destreggiandosi tra consulenti religiosi, registi sull’orlo di una crisi di nervi, starlettes in odor di scandalo, rapimenti di star, un paio di gemelle giornaliste di gossip e attori cani, attraversa come un Virgilio tutti i gironi del genere cinematografico accompagnando nel viaggio lo spettatore per fagli assistere alle finzioni (e alle pene) che vengono messe in scena per alimentare il poderoso marchingegno della produzione dei sogni in celluloide. Grandissimo merito per la riuscita di questo aspetto del film è del direttore della fotografia  Roger Deakins che riprende nella luce gli stilemi che hanno caratterizzato i generi cinematografici. Sul set nel set assistiamo alla prima scena in cui Josh Brolin è scomposto dal una luce contrastata d’ombra sul volto, espressione metafisica della legge del noir classico anni 40; e poi il western con i fondali dipinti; la luce e le coreografie dei film acquatici; la compostezza cromatica del melò; il pastello del musical a carattere marinaresco; i colori accesi e contrastati dei sandaloni  e così via. Una gioia per occhi attenti, un gioco per spettatori scafati e innamorati del cinema ma al contempo una messa in scena distaccata e cerebrale, poco disposta a farsi amare come storia, piuttosto propensa a farsi ammirare come bignami esplicativo di un cinema che fu.

Scarlett Johansson

Ave, Cesare! (2016): Scarlett Johansson


 In buona sostanza, molta tecnica e poco cuore frantumato in una sterile, cerebrale autocelebrazione della poderosa conoscenza cinefila di chi dirige e scrive ma di scarso interesse per chi il cinema lo conosce approssimativamente, un memorabilia dell’immaginario cinematografico per chi ne mastica. La satira del mondo produttivo hollywoodiano è stanca, quella sulla religione e i suoi portavoce poco incisiva (sarebbe stato interessante approfondirla maggiormente), i personaggi molto spesso sono macchiette.  Non c’è una direzione precisa del senso del film e spesso ci si accorge che qualcosa stride e qualcosa di incompiuto, di non perfettamente definito non accorda le buoni intenzioni ( e le buone idee) alla loro visualizzazione sullo schermo. 
Occorre rimarcare il solito problema del doppiaggio che sadicamente castra anche il personaggio più divertente del film, il cowboy tutto lazo e capriole al quale improvvisamente viene chiesto di recitare. Sicuramente visto in lingua originale Ave, Cesare  risolleverebbe sensibilmente le proprie sorti.
Ave, Cesare non è ovviamente un brutto film, ma sicuramente è il meno riuscito dei fratelli Coen. Ripiegato su se stesso, scivola senza colpo ferire sui meccanismi già noti cari ai suoi autori ed è più indicato da smontare e vedere a tranci a scopo didattico e esercizio intellettuale di competenza cinematografica.

Un film perfettamente accordato con la superficialità che amorevolmente sbeffeggia ma questo non è un pregio.

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