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Tutti gli uomini del Presidente

Regia di Alan J. Pakula vedi scheda film

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La recensione su Tutti gli uomini del Presidente

di supadany
8 stelle

Il processo per scoperchiare i grandi scandali è lungo e insidiato dagli ostacoli. Sotto i nostri occhi spicca il risultato finale, lo scoop da prima pagina, ma alle spalle c’è chi ha lavorato nell’ombra per chissà quanto tempo, sbattendo contro porte chiuse, sfidando i poteri forti e rischiando in prima persona, in un crescendo di pericoli, superabili solo con la profusione della massima dedizione, collocando la verità al primo posto della scala dei valori.

Tutti gli uomini del presidente è un’opera insuperabile nel suo campo, lo stesso che ha visto premiare Il caso Spotlight nel 2015 con l’oscar al miglior film (e che termina in modo analogo: la pubblicazione della notizia), un esempio di integrità che sfrutta le potenzialità comunicative del mezzo cinematografico semplicemente per scolpire nella memoria l’importanza dell’azione intrinseca e, prima ancora, documentare un fatto.

Nella fattispecie, il più grande crimine – almeno tra quelli smascherati – della storia politica americana.

Partendo dall’arresto di cinque uomini che nella notte del 17 giugno del 1972 furono colti in flagranza di reato durante un’effrazione al Watergate, sede del partito democratico, i giornalisti Bob Woodward (Robert Redford) e Carl Bernstein (Dustin Hoffman) del Washington Post imbastiscono un’inchiesta, giungendo in breve tempo a collegare l’accaduto con la campagna elettorale presidenziale.

Nonostante in un primo momento il direttore della testata Benjamin Bradlee (Jason Robards) non creda ciecamente nell’indagine, permette a due giovani cronisti di procedere e la ricerca sembra condurre a piani sempre più alti, fino ad arrivare alla massima carica istituzionale: la Presidenza.

Fronteggeranno l’omertà, spesso provocata dalla paura, sfruttando la consulenza di un informatore che rimane nell’ombra, rinominato gola profonda (Hal Holbrook) che, pur senza fornire elementi specifici, permette di raddrizzare il tiro e di avere conferme sulla veridicità del lavoro svolto.

Da questa inchiesta giornalistica, il 9 maggio del 1974, sarà istituita la procedura di impeachement ai danni di Richard Nixon, che il 9 agosto dello stesso anno consegnerà le dimissioni.

 

 

Ricostruito seguendo il report riportato nell’omonimo libro scritto a quattro mani da Bob Woodward e Carl Bernstein, Tutti gli uomini del presidente si assume pesanti responsabilità, com’è ovvio che sia quando è raccontata una vicenda spinosa i cui protagonisti possono giudicare l’operato, che soddisfa le attese con cardini ben saldi.

La composizione è perentoriamente sul pezzo, meticolosa esattamente come lo furono i due protagonisti, stabilendo con loro un rapporto simbiotico che a suo tempo cancellò i dubbi sul grado di lealtà della macchina hollywoodiana, con la stella polare insediata nel conseguimento della verità, chiamata ad assumere il ruolo di guida lungo la strada maestra. Un costoso impegno civile, quel giornalismo d’inchiesta che richiede(va) un lungo lavoro, costi anticipati senza avere la certezza di colpire nel segno, acume e un generalizzato sprezzo dei rischi derivanti dall’inevitabile scontro con i poteri forti.

L’impronta è frutto della sceneggiatura di William Goldman (Butch Cassidy, Il maratoneta), che mette insieme le tessere del mosaico partendo da lontano, un’elaborazione puntigliosa e oliata, tra plichi mastodontici da sfogliare e la presa di coscienza di dover fare il passo più lungo della gamba per arrivare al risultato ultimo, con l’azione che si sviluppa da una scrivania, con il brulicante ticchettio di una macchina da scrivere modello Olymphia, per poi destreggiarsi tra i singoli interlocutori, tanti puntini collegati tra loro da un filo nascosto.

Questo testo è pienamente sfruttato da Alan J. Pakula, scelto direttamente da Robert Redford, fedele alla causa, solenne nel tenere le redini dell’esecuzione, incalzante senza essere frenetico, volteggiando tra ipotesi e intuizioni per creare una tensione persistente pur dovendo fare i conti con punti fermi (la conclusione è nota).

Il passaggio supplementare scaturisce dall’abilità del direttore della fotografia Gordon Willis, soprannominato il maestro dell’oscurità, storico collaboratore del regista (con lui aveva già collaborato in Perché un assassino, Una squillo per l’ispettore Klute) nonché di Francis Ford Coppola per la trilogia de Il padrino e all’opera in alcune tra le migliori opere di Woody Allen (Io e Annie, Manhattan, Zelig). È infatti merito suo se il senso di paranoia risulta amplificato e persistente, nel quale la parvenza di un’ombra incute timore, grazie ad accostamenti dicotomici, anche di pertinenza artistica: il buio della notte, che ha la massima espressione in un parcheggio sotterraneo, e la luce fredda di una redazione alacre, all’interno della quale dei carrelli calibrati seguono gli spostamenti nervosi, la dimensione contrastante di un’indagine scaturita dal basso – due giornalisti nemmeno tra i più in voga (addirittura, Bob Woodward era il meno pagato del Washington Post) – che colpisce in alto – il Presidente – arrampicandosi su una scala ripida, con la metaforica, quanto esemplare nel rendere l’idea delle dimensioni dei soggetti, scena in biblioteca, ripresa dall’alto in progressivo allontanamento, con posizioni da scalare, collegamenti intavolati, indizi sparsi sul tracciato come le briciole di pane per Pollicino e una coltre oscura determinata a rimuoverle.

Per immortalare due uomini comuni alle prese con un’impresa sensazionale, non poteva esserci scelta migliore di Robert Redford, vero promotore a tutto campo di questo impegno, attento e rigoroso nella manifestazione dell’intraprendente incoscienza propria di chi è ancora sgombro dall’esperienza di una vita, e Dustin Hoffman, cocciuto nella ricerca e preciso nella disamina, ma anche il resto del cast è di primissima scelta. Jason Robards – premiato con l’Oscar per il miglior interprete non protagonista – imprime esperienza, autorità e saggezza nel ruolo del supervisore che ha memoria e responsabilità, Jack Warden e Martin Balsam conferiscono credibilità e professionalità, mentre l’unica presenza femminile di rilievo – Jane Alexander, nominata agli Oscar come miglior attrice non protagonista -  è altrettanto abile nel tratteggio umano di un momento sconvolgente, nel quale la sensazione di essere in bilico su di un crinale pericoloso era apodittica. Ancora, non si può sorvolare sulla figura di gola profonda, con Hal Holbrook immerso nella penombra e chiamato a interpretare un personaggio misterioso, annidato nel ventre contorto delle istituzioni, che solo in seguito si scoprì essere Mark Felt, il vice di Edgar J. Hoover, offeso per non essere stato scelto come suo successore (per gli incroci storici più sorprendenti, Hoover morì quaranta giorni prima dell’irruzione al Watergate), donando quindi ambivalenze che vanno oltre la conquista della giustizia, affondano nei dissidi più smaccatamente umani.

 

Jason Robards jr.

Tutti gli uomini del Presidente (1976): Jason Robards jr.

 

Difficile oggi capire quanto fu impegnativo e responsabilizzante realizzare l’opera, ma sono proprio le sfide più impervie a regalare le soddisfazioni maggiori. Inoltre, se ai tempi si trattava di rappresentare in diretta un evento sconvolgente, con il cadavere ancora caldo e l’opinione pubblica in fibrillazione, oggi coadiuva una riflessione più ampia. Le logiche legate al mondo dell’informazione sono radicalmente mutate, non offrono più le medesime garanzie, non consentono di andare in fondo nemmeno a volerlo, tra l’obbligo di portare risultati immediati (vale in troppi campi, meglio un uovo oggi di una gallina domani), una coscienza pubblica sempre più macchiata e false notizie spesso fuori controllo al punto di trasformarle in verità, senza considerare che bisognerebbe prima individuare qualcuno disposto al sacrificio, dotato di una caratura o di un curriculum immacolato che permettano di fidarsi.

Un dispositivo inattaccabile in ogni sua parte, principalmente di matrice civile ma anche di valenza artistica, da mandare a memoria, anche solo come esempio della volontà d’azione, un pilastro propedeutico e non procrastinabile per consentire di arrivare all’affermazione della giustizia, di cui c’è sempre - e più - un tremendo bisogno.   

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