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Contergan

Regia di Adolf Winkelmann vedi scheda film

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La recensione su Contergan

di millertropico
6 stelle

Il film diretto da Adolf Winkelmann è un coraggioso film di finzione realizzato proprio per mantenere viva la memoria sulla tragedia del Thalidomide e sulle responsabilità (criminali?) di una casa farmaceutica (la Grünenthal, detentrice del marchio).

Fu trasmesso per la prima volta diviso in due puntate nel 2007 dal canale televisivo tedesco ARD a suo totale rischio e pericolo perche non era stata ancora pronunciata la sentenza della Corte di Cassazione sul ricorso della stessa Grünenthal, che aveva cercato così di impedirne la diffusione (e quindi, di fatto, quando la pellicola – tecnicamente - era ancora bloccata e non avrebbe potuto essere resa disponibile alla visione).

Azione questa dunque davvero meritoria e forte atto di “disubbidienza civile” che dovrebbe essere presa ad esempio e utilizzata più spesso per neutralizzare la prepotenza dei potenti.

locandina

Contergan (2007): locandina

Non so quanto le nuove generazione sappiano di questo scandaloso esempio di utilizzo sconsiderato di un farmaco dagli esiti devastanti che fu commercializzato per meri interessi di profitto nonostante che la sua sperimentazione fosse stata fatta in maniera a dir poco approssimativa (ad essere gentili) e non sufficientemente valutata nei suoi nefasti esiti collaterali che, come fu poi ampiamente dimostrato, erano quelli di danneggiare gravemente e irreversibilmente il feto se assunto dalle donne durante la gravidanza e che ha avuto terribili conseguenze non soltanto in Germania, ma in tutto il mondo occidentale.

Cinematograficamente parlando, il film non ha particolari meriti (di “stile”, di “forma”) ma ne ha invece uno incommensurabile che è quello di fare di questo deprecabilissimo obbrobrio comportamentale, una ricostruzione puntuale e documentata che diventa di conseguenza una denuncia precisa e particolareggiata capace davvero di puntare il dito sui colpevoli di un simile reato come questo (che meritano il pubblico ludibrio) proprio perché integrata con molti materiali d’epoca utilizzati al meglio al fine di storicizzare i fatti, con un lavoro certosino scrupoloso ed encomiabile di “taglia e cuci” che enuncia subito, fin dall’ incipit (la voce fuoricampo, le scritte che appaiono sullo schermo), il suo obiettivo informativo particolarmente importante e necessario per i molti anni di distanza che ci separano da quegli avvenimenti, e far suonare un campanello d’allarme nella pubblica opinione onde evitare che simili delitti si ripetano ancora, oltre che ricordarci che i farmaci, specialmente di questo tipo, non sono caramelle e che non ci si dovrebbe mai fidare della troppa pubblicità invasiva che invita all’acquisto ma poco ci informa sulla loro tossicità secondaria (adesso fra l’altro si sta ritornando ad enunciare le poche cose che si dicono in negativo con una velocità da scioglilingua che le rende meno comprensibili, in barba a ciò che avevano invece stabilito le disposizioni emanate dal ex ministra Turco solo qualche anno fa).

Per parlarne adesso in questa sede, partiamo allora col dire cos’è (ed è stata) questa sostanza che non esito a definire un attentato alla vita e all’integrità del corpo (assumendomi a mia volta la responsabilità di utilizzare termini così forti).

Il Thalidomide è un “principio farmaceutico” sintetizzato e prodotto dalla Grünenthal nel 1960 che rientra nel vasto campo dei “sonniferi” (e quindi di larga diffusione e utilizzo) che ebbe particolare fortuna quando fu immesso sul mercato perché considerato a quei tempi assolutamente d’avanguardia, oltre che tutt’altro che pericoloso, e dunque da utilizzare per curare l’insonnia anche nelle persone più sensibili, proprio perché si ritenevano essere pillole poco aggressive che, con minori problemi di tolleranza rispetto agli altri analoghi farmaci in quel momento in circolazione sul mercato, inducevano una piacevole “calma e sonnolenza” e quindi indicatissime anche per conciliare il sonno durante la gravidanza a chi soffriva di questo debilitante disturbo funzionale.
Il film prende le mosse dalla figura di un avvocato (reale e non di fantasia), tale Paul Wagener che venne contattato da una madre che aveva da poco partorito un figlio con gravi handicap fisici.

Si accese subito una preoccupante lampadina che indusse l’avvocato a ipotizzare il dubbio che ci potesse essere stato un collegamento fra il farmaco (che la donna aveva assunto regolarmente anche in gravidanza) e quelle malformazioni, ma in mancanza di prove certe, la cosa finì lì (si scoprirà poi invece che già nel 1961 la Grünenthal era a conoscenza del fatto che il sonnifero aveva la capacità di passare attraverso la membrana della placenta delle donne in attesa di un bambino, e che era proprio così che la sua potenza distruttiva riusciva a danneggiare il feto in formazione, senza però che questo avesse indotto i responsabili della casa farmaceutica a correre ai ripari con una debita informazione o ritirando, anche soltanto in forma preventiva, il prodotto ed arginare così l’orrore. Questo, perché non intendeva perdere gli ingenti guadagni che il clamoroso successo del farmaco le stava procurando. Nessun scrupolo di coscienza insomma, ma solo il colpevole interesse a massimizzare i propri profitti aziendali.

Qualche anno dopo però anche l’avvocato Wagener si sposò, e anche a sua moglie Hanne subito rimasta in cinta (e che soffriva di una debilitante insonnia) il dottore prescrisse il Thalidomide. Wagener non ricordava più i dubbi che aveva avuto, ma gli diventeranno certezza quando Hanne partorirà un figlio altrettanto gravemente menomato in più parti del corpo: la cinepresa indugia a lungo nel mostrarci le immagini (molto forti) di quel neonato privo di un braccio, ma lo fa non certo per provocare lo spettatore, quanto invece per coinvolgerlo emotivamente.

I medici dell'ospedale in cui la donna ha partorito, accusarono però la coppia di non aver fatto un controllo sanitario approfondito prima del matrimonio, sostenendo addirittura che la malformazione era stata causata da problemi di natura genetica.

Paul Wagener, ormai coinvolto nel problema (psicologicamente ed eticamente) in prima persona e non più soltanto un difensore della legge e della giustizia, scoprirà che questi casi erano tutt’altro che isolati, e porterà di conseguenza avanti la sua battaglia che dimostrerà inequivocabilmente il terribile nesso fra “causa” ed “effetto” che determinerà alla fine la totale messa al bando del Thalidomide (con conseguente citazione in giudizio della Grünenthal).
Come ho già accennato prima, la narrazione è classica: la regia segue i suoi personaggi con una cinepresa molto duttile ed efficace che sembra spesso accarezzare i corpi dei protagonisti che ci mostra a distanza ravvicinata. Trattandosi di una ricostruzione “a soggetto”, è semmai il ritmo che può risultare un po’ lento (cinematograficamente parlando) ma è difetto che risulta invece particolarmente efficace proprio per il mezzo (quello televisivo) scelto per la sua divulgazione, poiché si conferma l’ideale strumento che aiuta lo spettatore ad identificarsi in quella tragedia che mi viene da definire epocale (molti dei bimbi presentavano menomazioni così gravi che non sono nemmeno riusciti a sopravvivere, ma credo che a quelli che ce l’hanno fatta sia andata - se possibile – anche peggio per le miserrime condizioni fisiche in cui sono stati costretti a consumare la propria esistenza.

La distinzione tra "buoni" e "cattivi", tra vittime inconsapevoli e carnefici senza scrupoli è nella pellicola abbastanza manichea, ma il testo filmico ha comunque il merito di schivare il didascalismo, proprio perché il ripensamento a posteriori di quei fatti e il trasformarli in un’opera di finzione “ricostruttiva”, rende molto più drammatica ed emotivamente coinvolgente la denuncia di un fatto che non ha scusanti ma che ci fa ben comprendere quali sono i meccanismi (e la mancanza di tutele anche difensive) che hanno reso o possibile nel ricco Occidente - al centro della civile Europa, cinquantacinque anni fa (ma come di fatto potrebbe accadere ancora oggi) – che l'avidità abbia potuto prendere il sopravvento sull’etica, il che ci fa provare un senso di raccapriccio e di smarrimento.
Non c'è comunque solo questo, poiché si tratta di un film che ha la forza e il coraggio di porre domande importanti (e di far riflettere anche lo spettatore) non solo sulla compassione che sembra averci abbandonato (com'è possibile non riuscire più a condividere "il dolore degli altri"?) ma anche sulle scelte morali che riguardano temi profondi quali l'aborto o l'eutanasia. Si interroga insomma su un problema centrale che coinvolge tutti noi che è poi quello che prendersi cura di un figlio è un impegno e un dovere, e che ci pone al dilemma di chiederci quanto sia difficile (e se siamo in grado, o se possediamo la necessaria forza per farlo) affrontare la situazione quando un bambino nasce con seri problemi fisici o mentali.

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