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Jhola

Regia di Yadav Kumar Bhattarai vedi scheda film

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La recensione su Jhola

di OGM
7 stelle

Un'indicibile barbarie, riesumata dalla storia, e qui raccontata con poetica grazia.

Sati. È il nome di una dea. Ed è anche il termine che indica una pratica barbara, diffusa in Nepal fino al 1920, ed ispirata ad un’antica leggenda induista. La vedova, alla morte del marito, doveva immolarsi, lasciandosi bruciare viva sulla sua pira funeraria. Il romanzo dello scrittore Krishna Dharawasi racconta una vicenda risalente all’inizio del secolo scorso, vista dalla prospettiva di un bambino, il figlio della vittima sacrificale. Kanchi è una giovane madre, nonché una sposa premurosa e devota al marito anziano e malato. Mentre lui, disteso nel letto, tossisce sempre più forte, lei continua ad occuparsi delle faccende domestiche. Lo assiste fedelmente durante la sua lunga agonia. Intanto si dedica con amore anche al piccolo Ghanashyam. Il racconto si apre con il ritratto di un caloroso, benché sofferto, ambiente familiare, sottolineato da una fotografia dai colori vividi e netti, e tracciato con fine sensibilità pittorica. Il quadro lascia trasparire la poesia semplice che attinge dal comune patrimonio dei buoni sentimenti lo spunto per elevarsi verso un discorso più ambizioso, che investe i drammi della storia ed i valori universali. Il tono della narrazione prosegue calmo, anche quando la tragedia si delinea con i contorni di una rituale inesorabilità, segnata dalla rassegnata sottomissione ad un potere tanto immane quanto invisibile, in cui la superstizione si mescola con una concezione patriarcale ed oppressiva della vita sociale. Di fronte ad una necessità sfuggente e terribile,  imperiosa e trascendente,  la donna non è nulla. È un corpo di cui l’uomo diventa proprietario, insieme alla sua forza riproduttiva e lavorativa, e che senza di lui perde di significato, ed è dunque logicamente destinato alla dissoluzione. Il film di Yadav Khumar Bhattarai si impegna a ridonarle un’anima: lo fa direttamente, dando voce al linguaggio fisico delle emozioni, mentre si sofferma sulla profondità dello sguardo e sulla dolcezza dei gesti della povera Kanchi. Ma quando l’obiettivo non la vede, quando è rivolto altrove, lascia che l’aria si impregni della sua presenza,  disperatamente desiderata da Ghanashyam, e proiettata sullo sfondo della realtà, sospesa nell’ansia di saperla condannata a svanire senza un perché. Di fronte a quella assurda ingiustizia, la scena si irrigidisce, e si mette intimamente a vibrare, insieme al ritmo della musica che accompagna l’atroce cerimoniale, e ai ricordi che continuano a sovrapporsi alla sfocata immagine del presente. Questa storia si incammina verso la sua morale con il passo cadenzato di chi, pur non essendo un raffinato danzatore, è deciso a conservare, nell’incedere, una grazia ossequiosa della bellezza e rispettosa del dolore che, crudelmente, la viene a straziare.  

 

Questo film ha rappresentato il Nepal agli Academy Awards 2015.            

 

 

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