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Man with no name

Regia di Wang Bing vedi scheda film

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La recensione su Man with no name

di EightAndHalf
8 stelle

E il Cinema finalmente diventa Fango, umiltà reincarnata nello sguardo attento di Wang Bing, pronto a raccontare una piccola storia che è una gigantesca epopea, senza risaltare l'evidente carattere epico che in questa sua pellicola si respira. E' finzione? E' un documentario? Probabilmente la seconda, ma poco importa. Che valenza ha la realtà se essa è isolata dal mondo, dalla civiltà che ben noi conosciamo e in mezzo alla quale viviamo inesorabilmente trafitti da enormi etichette quali realtà e finzione? Un po' un paradosso, un po' un problema inutile, siamo in un luogo quasi dell'immaginario, in Man with no name, in cui il concetto di realtà risulta complesso e irrisolto, sospeso, incredibilmente accattivante.

 

 

Siamo un passo avanti a tutti i contenuti tematici degli altri film di Wang Bing. Se in Crude Oil l'uomo era alienato dalla sua identità (che lo spettatore non distingueva) e in He Fengming avevamo come qui un solo personaggio, ma definito e marchiato a sangue da Storia, racconti e un nome che gigantesco suggellava una "memoria cinese", in Man with no name non solo non abbiamo un'identità (come ben sottolinea il titolo), ma non abbiamo nemmeno una Storia, né un processo di dissoluzione, né un contesto sociale. Sì, le macchine e gli aerei si sentono in lontananza, a un certo punto un aereo viene scrutato dal nostro innominato protagonista con sguardo rude, ma non c'è nessuna civiltà né nessun'identità da cui l'uomo potrebbe dirsi alienato. L'uomo torna alla sua funzione originaria, si preclude da qualsiasi sovrastruttura e si giova del suo lavoro manuale, inconsapevole del concetto di miseria.

 

 

Il film è di una semplicità abbacinante, Wang Bing segue dovunque un uomo solo e quasi privo di emozioni in una landa desertica dove questi ha organizzato una piccola abitazione (dentro una grotta) e dove cerca di coltivare qualche pianta per poi cucinarla e mangiarla. Quando oltrepassa una qualche sporca asperità del terreno, o quando mangia le sue brodaglie a base di verdure, sembra quasi di diventare fango, umidità, calore, sapore. I rumori del suo mangiare e del suo lavorare rimbombano come dentro una cassa di risonanza, esplodono invadendo il senso dell'udito, ma passano come inosservati e normali. Tutto è spaventosamente normale, qualunque cosa è incredibilmente epica: è l'epicità del quotidiano, l'incredibile storia dell'immediatezza. Non c'è nient'altro dietro quello che vediamo, la portata realistica è evidente, i movimenti di mdp sempre mossi e protesi ad osservare l'Unico, quell'uomo che senza un vero motivo inseguiamo. Siamo dentro un'enorme grotta del Reale, ma siamo come fuori dalla "nostra" realtà, come se inseguendo una piccolissima verità (l'obbiettivo bagnato di goccioline di pioggia mai pulita...) Wang sia riuscito a creare quella parentesi esistenziale che normalmente il Cinema crea appellandosi erroneamente alla fantasia: siamo lì dentro e stiamo vivendo un'altra vita. Cinema fatto con nulla, solo con la purezza del guardare. E' cinema altro in una condizione altra, quella di un uomo che non si attiene né all'istinto anti-civiltà, né alla civiltà, ma a qualcosa di soprannaturale (non si ferma mai, lavora sempre), forse al buon senso.

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