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The Rocky Horror Picture Show

Regia di Jim Sharman vedi scheda film

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Raffaele92

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La recensione su The Rocky Horror Picture Show

di Raffaele92
9 stelle

Raccontare “The Rocky Horror Picture Show”? Impossibile.

Eppure come fare allora per incitarne, consigliarne e sostenerne la visione? Partendo forse da un assunto, ovverosia che al di là del kitsch, del barocco, della stravaganza dei personaggi e dell’originalità della rivisitazione di uno dei miti letterari (e non solo) di un secolo (“Frankenstein”), il fulcro di questo film nonché il motivo della propria riuscita è prevalentemente uno: la musica.

Si tratta qui di un elemento vitale, ben più che predominante, quasi “fisico”, un personaggio che trascina tutti gli altri in un vortice di pulsioni.

Far capire perché quest’opera sia diventata il paradigma del concetto stesso di cult movie sarebbe come tentare di spiegare la Bibbia a un ateo.

Spesso nel cinema si tratta infatti di una questione di alchimia: certi film vanno “avvertiti”, “sentiti”, “percepiti”. Tentare di spiegarne il contenuto significherebbe disperderlo.

Volendo darne un’approssimativa idea, quello in analisi si presenta come un furioso e coloratissimo horror-cocktail fatto di tacchi alti, rossetti violenti, erotismo stravagante, fruste e giacche in pelle, costumi sgargianti, richiami simil-gotici e rimandi a certo cinema horror anni ’30 e ’40 di casa RKO (la quale fa un suo sbalorditivo “ingresso” verso la fine).

“The Rocky Horror Picture Show” è una (rock)opera aggressiva e trasgressiva, dove ogni personaggio è un voluto stereotipo portato all’eccesso oppure una citazione vivente: un Igor scheletrico interpretato da Richard O’Brien (che del film è anche il compositore delle canzoni nonché co-sceneggiatore), la coppia di giovani impacciati sposini novelli (ma la carica sessuale di Susan Sarandon – nonché le sue doti…canore – esploderanno con furore durante la bellissima “Touch-a, Touch-a, Touch Me”), l’omaggio finale a “La moglie di Frankenstein” ad opera di Magenta, l’entrata in scena (meritevole di interminabili applausi) di Meat Loaf che canta “Hot Patootie - Bless My Soul”, per non parlare di Frank-N-Furter: un uomo (?), una leggenda (Tim Curry nel ruolo della vita).

E potrei andare avanti ancora, perché i titoli di testa sono una delle cose più belle del film, perché la sequenza dove i due protagonisti (anche se, durante lo svolgersi della narrazione, ci si accorge come tale ruolo non spetti propriamente a nessun personaggio in particolare) cantano “Over at the Frankenstein Place” sotto la pioggia             è teneramente sublime, perché il finale nella piscina è pura estasi sensoriale.

Quindi, in definitiva, questo film di Jim Sharman (regista che, dopo l’esordio con “Rocky Horror”, avrebbe diretto solo un mediocre sequel dello stesso, ovvero “Shock Treatement”, 1981) non è un semplice delirio grottesco da considerarsi come farsa in forma musicale; è un inno alla vita e al contempo celebrazione e glorificazione di impulsi (non solo sessuali) umani e viscerali (“Don’t Dream It, Be It”), non privo di momenti strazianti (“I’m Going Home”).

Più che un film, col passare degli anni “The Rocky Horror Picture Show” è diventato un evento, appuntamento fisso per le proiezioni di mezzanotte che si tengono ogni anno a Milano e New York e che raccolgono orde di fan.

Alcuni non lo capiscono, altri lo disprezzano, tantissimi (per fortuna) lo chiamano cult.

Io lo chiamo capolavoro.

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