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El Shoq

Regia di Khalid Al-Haggar vedi scheda film

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La recensione su El Shoq

di OGM
6 stelle

Desiderio, brama. Questo è il significato della parola araba  el shoq. Ma è anche il nome della figlia maggiore di Fatma, che ha un marito calzolaio ed ha altri due figli, l’adolescente Awatef ed il piccolo Saad. I cinque abitano a Labban, un antico quartiere di Alessandria d’Egitto, popolato di costruzioni basse ed attraversato da un dedalo di viuzze sterrate. In quel luogo la povertà è di casa, anche se è mitigata dalla solidarietà. Tutti vivono con pochi mezzi, ma in pace, lavorando onestamente, e serbando nel cuore tanti sogni, coltivati con la dovuta moderazione. Abou Salem è invalido, però ha appena ottenuto la licenza per aprire un chiosco, con il quale spera di aiutare il figlio, un giovane ingegnere con grandi ambizioni. La stessa Fatma, per far quadrare il bilancio familiare, si arrangia come può, girando nel vicinato a leggere i fondi di caffè e a distribuire consigli. Si è creata una fama di indovina, grazie anche alle crisi che spesso la colgono, durante le quali sembra cadere in trance, mentre pronuncia frasi sconnesse e sbatte ritmicamente la testa contro il muro.  Forse Fatma vede demoni, lassù, nel cielo, dove gli altri, invece, cercano di mettere a  fuoco  la luce di un futuro migliore. I suoi spettri cominciano a materializzarsi nella realtà il giorno in cui il suo bambino si ammala gravemente. Gli viene diagnosticata un’insufficienza renale, che rende necessario il ricorso alla dialisi. I soldi, però, non bastano per affrontare le spese mediche. Fatma, in quel momento, decide di passare all’azione, Sulla scorta dell’emergenza, si ritroverà a chiedere l’elemosina per le strade del Cairo, un’attività che si rivelerà inaspettatamente redditizia, fino a renderla ricca. Scatta, così, in lei, il disprezzo per la miseria: la condizione che ha causato tutte le sofferenze passate, e che minaccia di compromettere l’avvenire delle persone che più ama. La sua voglia di riscatto tracima in un delirio di onnipotenza, che finirà per sconvolgere la vita di tutto il circondario, con l’arma di una beneficenza ambigua, strettamente imparentata con il ricatto. La sua (mala)voglia  si nutre delle sue fosche allucinazioni di sempre, e pare indotta dal terrore di ricadere nella disgrazia, e dalla sua smania di impadronirsi del destino proprio e di quello altrui, forte del denaro che è rapidamente riuscita ad accumulare. Il film di Khalid Al-Haggar è carico di un cupo misticismo della sventura, che fa allungare sulla terra l’ombra scura dell’inferno, in un angolo di mondo che, inizialmente, si direbbe votato all’innocenza, alla bontà, alla semplicità d’animo. La madre maga si trasforma in un’emissaria del Male, una dispensatrice di lusinghe ed umiliazioni con le quali mira a soggiogare uomini e donne, assoggettandoli al proprio potere vorace. Le sue guance scavate ed i suoi occhi infossati, cerchiati di nero, smettono di essere i connotati del dolore per  diventare i tratti di una maschera diabolica, i caratteri di una creatura gotica e primitiva, situata nel selvatico chiaroscuro in cui la ruvidezza dell’espressionismo incontra la bestialità del naturalismo. La protagonista si colloca, nel mezzo della storia, come una macchia di colore rozzo e violento: lo sfondo, al confronto, rimane ovunque sbiadito, coperto da tinte acquose e convenzionali, che non oppongono alcuna resistenza alla provocazione cromatica di quel contrasto.

Fatma è la regina indiscussa della situazione, come personaggio e come interprete, mentre tutto il resto, al suo passaggio, si fa da parte e istantaneamente si sfalda. Una figura di tale spessore avrebbe meritato un contorno ben più robusto; purtroppo, invece, quel fiore delle tenebre è rimasto solo, in un giardino desolato, che ha preferito sparire per non lasciarsi sporcare.  

 

El Shoq ha concorso, come rappresentante dell’Egitto, al premio Oscar 2012 per il miglior film straniero.

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