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The Dead. Gente di Dublino

Regia di John Huston vedi scheda film

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La recensione su The Dead. Gente di Dublino

di EightAndHalf
8 stelle

Di fronte a The Dead si staglia l’Indefinito. Quello sottopelle che vibra in tutta la sua ambiguità sotto le convenzioni, i costumi, i corpi. Una gabbia dall’apparenza aggraziata e quieta, fin troppo razionalizzante per rappresentare a pieno l’essere umano. Necessariamente, una gabbia tipicamente ipocrita, tipicamente borghese, tipicamente d’alto rango, che non esclude però, forse, veri esseri umani. Forse è proprio un rifugio, la realtà, da noi stessi, dall’immensa confusione che pure ci annebbia la vista e ci rende impenetrabili dall’esterno che continuerà con il suo occhio (che poi è l’occhio tradizionalista di John Huston) a scrutarci cercando magari di cogliere quell’universo infinito che è l’aura di ogni essere umano. Peccato che quell’aura sia impenetrabile, dalle parole tanto quanto dall’immagine e dalla vista, tanto che l’apparire si fa ancora più assurdo, inquieto, invitante specchio di una “storia” da camera ma riflesso profondo di disagi esistenziali. No, effettivamente in The Dead non c’è storia se non nel flusso di coscienza dei suoi protagonisti, e non è un caso che l’origine è proprio Dubliners di James Joyce. Come spiegarsi altrimenti quel grande senso di spossata confusione che l’andamento normale dell’intera pellicola nasconde, acquieta, zittisce prepotentemente? Come spiegarsi il disorientamento, lo sconvolgimento, seppure sotto le risa, l’eleganza e il fascino di una serata borghese d’altri tempi? Come spiegarsi il lento insinuarsi dell’Arte e della litania di un coro di anime sperdute, che poi è l’esternazione poco immediata dell’immensa complessità del nostro sentire? Il film di John Huston sfugge a cristallizzazioni che invece caratterizzano pure grandissimi film del passato, ma lo fa in maniera sopraffina, elegante, aderendo a quelle maschere sociali di cui la società irlandese di fine Ottocento inizio Novecento sembrava abusare ma facendo sopravvivere piccoli sprazzi di incomprensibile emozione negli sguardi di Anjelica Huston, nell’equilibrio statico di certi momenti in cui si canta, si suona o si balla, nella tensione effervescente di dialoghi acculturati ma al limite dello snob, paradigmatica via di interpretazione dello spaccato generazionale di un frammento storico: il Nulla, inteso come mancanza di comunicazione, evanescente umanità, noia esistenziale. Non succede nulla, in The Dead, perché gli esseri umani sembrano fin troppi maturi per far avvenire nulla, troppo inariditi, fantasmi che si affidano all’Arte e alla Poesia come coloro che fin troppo invecchiati non hanno più nulla da aspettarsi dalla vita, se non il rimescolarsi eterogeneo dei ricordi del passato e di stimoli culturali che invecchiano non appena si sono definiti nella mente. Da qui l’eccentrica positività del personaggio di Freddie/Teddy, ubriacone che sembra rubare la scena alla quiescente stasi estetica di un piccolo gruppo di esseri umani ingenui, ridondanti e convenzionali che si circondano di un nulla rassicurante cercando di esserne meno coscienti possibile. Da qui l’ambigua prevalenza dei personaggi di Gabriel e Gretta, inquieti sposi alla Eyes Wide Shut (senza la componente sessuale-morbosa) che si espletano in quanto felice coppia sposata ma scoprono, nella distanza delle loro soggettività, realmente di non conoscersi e di non condividere nulla, se non la prigione dell’esteriorità, del solito. E’ dunque, The Dead, una mascherata in cui la Vita si sporge di quando in quando nei volti, nei gesti e nelle parole, mai schematiche metafore ma stimoli di pulsanti interiorità. Come se in rari lampi di saggezza vedessimo l’estendersi dei singoli individui all’esterno, ne vedessimo il dentro, confondersi e divampare per cercare di liberarsi da invisibili catene. E mentre Anjelica Huston racconta il suo passato d’amore con Michael Fury (così come, secondo un percorso opposto, Nicole Kidman racconterà il suo sogno di tradimento), partono anche i pensieri di Gabriel, che come il pensiero di un poeta (ma è il pensiero dei singoli esseri umani, il più delle volte incapaci appunto di esprimersi) comincia ad avvertire il senso di morte di tutto, la caducità sua e del suo stesso pensiero, l’approssimarsi di un’agonia interiore che in questa destrutturante epifania ha il suo inizio e la sua compiutezza. Il tutto mentre la sua voce parla (tramite parole attanaglianti e incredibili), e il nostro sguardo come il suo evoca immagini che nella loro confusa immediatezza possono ambire addirittura ad anticipare certo onirismo sokuroviano, compenetrandoci di un ambiguo senso di dolce tristezza. 

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