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American Sniper

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su American Sniper

di deepsurfing
8 stelle

Per chiunque non sia americanofilo e non abbia dimenticato la grande menzogna con cui Bush ha lanciato la sua crociata, ed effetti collaterali come Abu Ghraib, sembrerebbe impossibile identificarsi con l'eroe dell'ultimo film del vecchio Clint: un cecchino americano in Iraq. Tanto più che i suoi primi due bersagli sono una donna e un bambino! Eppure il film funziona: ci fa identificare, col cecchino, e ci costringe a guardare la guerra con gli occhi di un “patriota”.

Eastwood racconta la storia di un soldato americano (una storia vera, tratta dall'autobiografia di Chris Kyle), che sente di dover andare in guerra non perché si crede un giustiziere (o perché crede in una società autoritaria in cui bisogna rispettare le gerarchie e farle valere con la forza), ma perché è un “cane da pastore”. In una scena cruciale del film, il padre del protagonista spiega il suo modo di vedere il mondo: ci sono le pecore, i lupi e i cani da pastore. E se i suoi figli fanno le pecore o i lupi, lui li prende a cinghiate. È un mondo semplice, da cowboy texani, bravi coi cavalli e i fucili.

Una volta cresciuto, il giovane campione di rodeo, duro, semplice e diretto, decide di arruolarsi nel corpo più duro, i Navy Seals. Incontra una donna e, semplice e diretto, se la sposa. Parte per il fronte e, semplice e diretto, fa il suo dovere di tiratore scelto. Ma non è una macchina che vede il mondo solo attraverso il mirino: guarda attentamente con entrambi gli occhi e spara solo quando non può farne a meno; prega che il bambino iracheno non abbia una bomba o non imbracci il lanciarazzi; salva i suoi compagni, non si tira mai indietro. Insomma è un eroe, semplice e diretto, e il suo compito è uccidere. Di fronte ha lupi peggiori di qualunque animale, “macellai” disumani da cacciare senza pietà, e altri cani da pastore rivali da combattere lealmente. Ma ha anche i drammi delle vittime civili e dei caduti; e le angoscie delle “pecore” sconvolte, come il fratello minore, anche lui arruolato, che torna in America disgustato da quella guerra schifosa. E quando torna in America deve fronteggiare un altro dramma: la scelta tra l'amore per la moglie e i figli, e il richiamo della guerra, che prevale perché quello del cane da pastore non è un lavoro, ma un istinto, irreprimibile.

Il plot è ben costruito, con gli ingredienti giusti: la suspense delle missioni di guerra, la sfida col cattivo e il rivale, lo scontro e il duello a distanza, culminante con una suggestiva tempesta di sabbia che confonde tutto. Ma il finale è spiazzante, fuori da ogni cliché, per il semplice fatto che racconta l'insensata ironia della realtà. Eastwood lo fa con una suggestiva sospensione su un accordo in minore, che lascia un retrogusto amaro e confonde le idee come la tempesta di sabbia confonde la vista. Ma non basta a riscattare il film da un eccesso di semplificazione ideologica. Il mondo è troppo complicato per dividerlo in pecore, lupi e cani da pastore. La guerra è un orrore che semplifica e appiattisce le differenze: quello di un bravo cecchino non potrà mai essere un buon punto di vista sulla realtà.

 

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