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American Sniper

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su American Sniper

di scapigliato
9 stelle

Clint Eastwood, lo sappiamo, non le manda a dire e nella trasposizione cinematografica del presunto eroe americano Chris Kyle ci racconta, così com’è stata, la vita del più letale dei cecchini americani, sia sul fronte iracheno che su quello domestico. La critica e la denuncia dell’inutilità della guerra e del retroterra culturale che “arruola” i giovani ragazzi americani fin dalla tenera età si manifesta nella narrazione tanto meccanico-stereotipata quanto distaccata della biografia del personaggio.

Chi parla di un film di propaganda militarista forse non lo ha visto o semplicemente non conosce il linguaggio cinematografico per poterlo capire e forse è più attento alla storia e all’intreccio che alla forma e al contenuto; dedurrà, in prima lettura, che la pellicola parla di un giovane che non vede l'ora di andare in guerra a spaccare teste come nel vecchio testamento. Invece è la lettura successiva, quella del linguaggio adottato dal regista e della forma scelta per rappresentare tale storia e tale intreccio, che ci permette di capire realmente con che sguardo ci viene raccontata. È urgente che nelle scuole italiane si insegni Educazione cinematografica o Educazione all’immagine e all’audiovisivo, altrimenti rischiamo di implodere culturalmente.

I primi venti minuti del film sono la manifestazione della grandezza eastwoodiana del racconto cinematografico, oltre che la chiave di lettura dell’intera pellicola. Il film inizia infatti con il cecchino che prende di mira un bambino iracheno armato di una granata. Nel momento in cui si sente lo sparo, con un abile stacco narrativo e un montaggio diacronico, il colpo va ad uccidere un cervo nel Texas di vent’anni prima, quando il piccolo Chris Kyle andava a caccia con il padre. Il montaggio, da narrativo diventa concettuale, infine ideologico. In tutto questo segmento iniziale che si chiude a circolo con il ritorno al cecchino sui tetti di Falluja pronto a sparare al bambino con la granata, il regista opera una magistrale sintesi narrativa quanto ideologica.

Chris Kyle viene fin da piccolo indottrinato al culto delle armi, alla triade Dio Patria e Famiglia, alla cultura della Bibbia e alla cristallizzazione di bene e male a cui corrisponde la divisione sociale in pecore, lupi e cani pastore. Il futuro cecchino cresce nel mito texano del cowboy che viene qui rappresentato nella sua forma più estetizzante e meno problematica, quella dell’eroe da rodeo. Se in Junior Bonner (1972) l’elegia romantica di un mondo e di un tempo perduti è il filo rosso che intreccia la narrazione, in American Sniper l’immagine del mondo western è solo una patacca, una fibbia da esibire come trofeo per la copula facile. È l’ultimo stadio di corruzione di un mondo bucolico che sta lasciando irrimediabilmente il posto all’11 settembre, tragedia mondiale che il neo campione di rodeo vede alla televisione – ulteriore mezzo di filtrazione che torna e ritorna nell’arco di tutta la storia – e che lo farà partire senza ripensamenti per l’arruolamento militare nei Seals.

Addestramento duro, fortemente machista – forma estetica del fascismo, di una ricercata virilità tutta esteriore a compensazione di quella biologica mai posseduta – che crea delle macchine della morte convinte di essere dei soldati di dio al servizio del paese più bello del mondo e che al di là dell’oceano ci sono solo selvaggi a cui spaccare il culo. Addestramento a cui segue un matrimonio, immagine di festa e felicità, promessa di amore eterno, abiti bianchi e sogni rosa, interrotto da una chiamata di guerra che fa saltare di gioia i commilitoni tutti contenti di lasciare le loro case per andare a morire. Il tutto condito da stucchevoli battute retoriche messe in bocca al protagonista che sembra più il testimonial di uno spot pubblicitario per dentifrici che il personaggio di un dramma bellico. Il suo egoismo, la protervia e la superiorità spocchiosa di chi crede di stare dalla parte dei buoni per elezione divina rendono il Chris Kyle eastwoodiano irritante e antipatico, un pupazzo seduto sulle ginocchia del ventriloquo-indottrinatore, aiutato in questo anche dal volto di Bradley Cooper, irritante già di suo.

Infine il cerchio si chiude con il cecchino che spara al bambino e poco dopo alla madre. Una scena di fortissimo impatto la cui disumanità viene stemperata dalla distanza critica tra il soggetto, il cecchino-regista-spettatore, e l'oggetto dello sguardo, il cadavere inerme del bimbo. Una crudeltà che fa a gara con quella dei terroristi che trapano il cervello di un altro bambino iracheno perché il padre aveva parlato con gli americani. È un guerra tra poveri. Dal Medio Oriente al Texas non cambia nulla. Il culto delle armi, del sangue e della guerra santa è lo stesso.

Cosa ci dice che le parole e i pensieri di Chris Kyle non sono quelli del regista? La forma e il linguaggio ce lo palesano, mentre la storia gioca a rimpiattino con la realtà e la verità delle cose. Innanzitutto, la puerilità delle frasi da manuale del protagonista, con cui se ne paventa l’ideologia ci inquadra Chris Kyle come un automa, un pupazzo, un bravo ragazzo plagiato dall’ideologia di cui è diventato il braccio armato, mentre intorno a lui il mondo intero si interroga su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, dalla moglie ai commilitoni. Inoltre, non solo quei primi venti minuti sono il chiaro esempio di come la struttura narrativa e il linguaggio adottato, montaggio in primis, siano i dispositivi reali con cui autorializzare la vicenda e oggettivarla, ma anche la costruzione alternata tra l’ambiente guerresco e quello domestico svelano la conflittualità del dramma. Le stesse parole di Clint Eastwood «il conflitto è la base del dramma e la guerra è il conflitto per antonomasia» svelano come al centro del film sia indagato il rapporto umano tra il protagonista e il mondo, piuttosto che il presunto eroismo in guerra.

Fondamentale nell’analisi dello sguardo registico sull’intera vicenda l’assenza del commento musicale. Si registrano solo quelli dell’intimità famigliare e quelli incalzanti delle azioni belliche. In nessuna scena e tantomeno durante nessuno dei tanti telefonati dialoghi patriottici abbiamo una sola nota a commentare retoricamente il momento. Il commento musicale, lo dice la parola stessa, “commenta” la scena dandole un significato aggiunto, dedotto poi dal fruitore. La sua assenza invece, non crea empatia, ma distacco. Mette in scena il contrasto tra la verità delle cose e il loro stravolgimento, isolando così la pomposa stupidità del gesto retorico.

Altra assente di lusso è la bandiera americana. Non mi risultano scene in cui sventoli in bella posa, mentre appare come feretro, come piccolo stemma, lasciando il posto d’onore alla bandiera texana che troneggia sul letto di Chris Kyle in Iraq.

Il linguaggio adottato da Eastwood ci suggerisce quindi come il sentimento umano di pacificazione e di razionalità di fronte agli orrori assurdi della guerra e dell’indottrinamento plagiante, perda davanti all’ostinata e incomprensibile difesa dei disvalori morali di un paese ancora oggi retto sulla paura per il nemico esterno. La paura, l’ignoranza, la povertà culturale, la divisione razziale e sociale risultano essere il vero grosso problema dell’America di oggi come di ieri. E sono indiscutibilmente alcuni dei temi tra i più trattati da Eastwood nella sua carriera.

Come riporta Giulia D’Agnolo Vallan sul Manifesto del 7 dicembre 2014, Eastwood fa sua una frase del Presidente Obama, da lui sempre criticato: «quando la gente non ha altro si aggrappa alla pistola e alla bibbia». Ed è quello che fanno Chris Kyle e centinaia di altri ragazzotti americani storditi dalla promessa di eroismo e di virilità della vita militare. A questo punto, l’arma come ideale proseguimento fallico e suo supplemento o addirittura surrogato, sembra ritornare come icona di una mascolinità ferita e non più come una stupida elucubrazione freudiana. Ma non è su questo che indaga Eastwood, nonostante l’arma e la sua più diretta conseguenza, ovvero la morte o la mutilazione, siano anche in American Sniper oggetto di critica. Una critica delicata, distaccata ma partecipe, perché lo sguardo umano di Eastwood sa sempre come colpire al cuore senza ricattare moralmente o sentimentalmente. Ed il brano narrativo che coinvolge i reduci di guerra storpiati dalla guerra stessa ne è un chiaro esempio. Soprattutto se pensiamo che ad uccidere Chris Kyle è stato un reduce che l’eroe nazionale stava cercando di aiutare. Il regista ha deciso di non mostrare questo elemento narrativo, come l’Herzog di Grizzly Man (2005), nonostante sia proprio questo elemento a trasformare l’esperienza del più letale dei cecchini americani, la “leggenda”, il “diavolo di Ramadi”, in una parabola esemplare di natura tragica, paradigma di tutti i soldati inviati a morire da generali e capi di stato che invece se ne stanno comodi a casa loro a giocare alla guerra.

No. Non c’è traccia di becera propaganda militarista in American Sniper e nessuna agiografia del soldato americano. Le battute finali, ovvero i titoli di coda con le reali immagini della processione funebre che ha portato il corpo di Chris Kyle da Midlothian ad Austin, lungo l’interstatale 35, immagini in cui l’America si stringe intorno alle vittime della sua stessa carneficina, rendono onore più all’uomo che al soldato. L’uomo che il Paese ha piegato secondo i propri interessi. Eastwood non parla di nessuna guerra giusta né tantomeno necessaria. Parla piuttosto del suo incomprensibile perpetuo ritorno. Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale i politici avevano assicurato che non sarebbe mai più successo. E invece ecco arrivare il secondo conflitto mondiale, poi la Corea, il Vietnam, il Nicaragua, l’Iraq, l’Afghanistan.

Povera quella sinistra che vede in American Sniper l’esaltazione dell’atto militaresco e una triviale propaganda politica. Povera quella destra che esalta il film come manifesto dello standard americano e del suo giusto potere imperiale. Clint Eastwood si conferma l’anima critica della destra americana, mai becero, mai guerrafondaio – e i suoi film sulla guerra lo confermano, da Gunny (1986) al dittico su Iwo Jima (2006) – e mai oscurantista. L’unico capace di contestare il Presidente socialista (?) buttando davanti agli occhi di tutti gli americani quella che è la loro problematica, ipocrita e contraddittoria realtà.

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