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American Sniper

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su American Sniper

di amandagriss
9 stelle

 

Il cowboy texano Chris Kyle è un moderno San Paolo Apostolo.

Anch’egli, a metà del suo percorso di vita, viene folgorato sulla via del tubo catodico che informa delle azioni di guerra da parte dell’esercito statunitense in terra d’Iraq.

Delle devastazioni. Delle perdite.

Del Male di cui si nutrono quei territori remoti pregni di sangue, polvere e macerie.

 

Nei film di Clint Eastwood -l’ultimo grande classico contemporaneo- il nostro buon dio padre si guarda bene dal vegliare sui propri uomini-figli. È distratto, distante, assente.

L’umanità è lasciata a sbrigarsela da sola, e sovente finisce per crearsi un suo personalissimo culto modellato a propria immagine e somiglianza, che sia in definitiva un qualcosa in cui credere, che sappia vestire di senso ciò che senso non ha, che funga da ragione di vita e, soprattutto, di morte.

E così Chris, ma non solo Chris, identifica dio nella patria, fa del talento (di abile tiratore scelto) ricevuto in dono dalla nascita la sua grazia divina, fa della lotta contro il male in terra (la guerra in Iraq) la sua missione di salvezza.

In guerra, c’è chi ci va per dovere e cerca di non porsi troppe domande, chi ci va con un boccone strozzato in gola e prega di tornarsene a casa alla svelta, e chi, come il navy seal Chris, ci va per investitura, credendo fermamente in quello che è stato chiamato ad adempiere.

Visione, vocazione e missione rendono Chris una leggenda vivente.

Come il padre gli diceva da piccolo, egli appartiene alla razza dei cani pastore, a coloro cioè che guidano e proteggono il gregge, difendendolo dai lupi predatori.

E, infatti, Chris sul campo di battaglia combatte al fianco del proprio compagno, gli sta davanti per condurlo sicuro, ma prima di tutto gli si piazza sulla testa.

Ovvero, sul tetto di edifici fatiscenti abbandonati, affinché, dall’alto dell’ampia visuale di cui gode, possa garantirgli un solido scudo contro gli attacchi da terra, le imboscate, gli agguati nemici più disparati, architettati e condotti con la sua stessa fredda calcolata spietatezza (ma che provoca sempre un brivido o un battito accelerato del cuore).

 

Per tutto il tempo noi spettatori assistiamo ad una doppia guerra, il conflitto a fuoco, terribile e incessante, consumato dentro città-cimitero che si rivelano essere atroci trappole di morte, e lo scatenato incontenibile conflitto interno al nostro uomo.

Un tumulto di emozioni devastanti a lacerargli l’anima, a trapanargli la testa, in ogni istante, specie quando al ritorno dal fronte ogni rumore, anche il più innocuo, ogni movimento, anche quello più semplice e consueto (il sorpasso di un’auto) mette in allarme i sensi, fa alzare il livello di guardia, innesca disagio, provoca agitazione, fa aumentare la pressione sanguigna.

Alienazione.

Sindrome da astinenza da guerriglia.

E così, come con il sergente Williams James (Jeremy Renner) in The Hurt Locker o l’agente CIA Maya Lambert (Jessica Chastain) in Zero Dark Thirthy, l’inseguimento delle proprie soverchianti ossessioni (è l’apparente sete di gloria o qualcosa di più profondo e personale?) può trovare appagamento soltanto sulla linea del fuoco, tra bombe proiettili vite strappate e perdute.

E cattivi da castigare ad ogni costo.

Per tutto il tempo una tensione sottile ma pervicace scorre sotto pelle e mai ci abbandona.

È avvinghiante e soffocante a tal punto che perfino i momenti di decompressione non sono veramente tali.

Chris (e noi con lui) non è più al sicuro.

Paranoia. O forse solo presagio di una tragedia pronta a sorprenderlo, impreparato e disarmato, dietro l’angolo.

 

Eastwood ci tiene su una corda tesa, ci gela il sangue nelle vene.

Attendiamo la disfatta finale per tirare il fiato, schiacciati da un cielo pesante come il piombo.

E non importa se questa avverrà in terra straniera o nell’amata patria.

 

Nessun essere umano vince davvero una guerra.

Nessuno mai ne esce totalmente integro.

Chi vi lascia la vita,

chi gambe e braccia,

chi la vista,

chi il senno.

Tutti, indistintamente, perdono una parte (irrecuperabile) di sé.

Perché la guerra, raccontataci con straordinario sguardo lucido, mirabile asciuttezza e senso della realtà che ha del miracoloso, porta a casa gli strascichi delle sue aberrazioni, le sue nascoste, ingannevoli, mimetiche, letali distorsioni.

 

                                                                                   

                                                                                         

                                                                                                                                                                 

                                                                               

                                                                                     

                                                                                    

 

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