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La mezza stagione

Regia di Danilo Caputo vedi scheda film

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La recensione su La mezza stagione

di OGM
7 stelle

Palla al centro. La vita è tutta lì, e non si muove. Fare, pensare, sperare non serve a nulla. O forse, invece, è tutto. La realtà è quello che subiamo. Quello che tentiamo. Quello a cui cerchiamo di dare una spiegazione. L’esistenza è la nostra storia di esseri indifesi, che non sono abili a combattere, eppure ci provano lo stesso. Individui che non sono in grado di capire, e ciononostante interpretano, sentenziano,  pretendono di decidere tra il bene e il male. La mezza stagione  siamo noi, che siamo indefiniti, colti alla sprovvista da fatti senza capo né coda, eppure capaci di trasformarli in pensieri, giusti o sbagliati, ragionevoli o folli. Siamo in balia del caso, come le cose che ci accadono, le persone che incontriamo, le risposte che ci danno. Questo racconto è l’intreccio di nove fili logici, che si incrociano senza creare una vera trama. Sviluppi che coabitano sotto il cielo velato del mondo, pacificamente, ma con reciproca indifferenza. Nel paese la gente mormora, ma non sa quello che dice. Le parole si dissolvono nel silenzioso sbigottimento di chi credeva che bastasse stare vicini per andare d’accordo, per stabilire una intesa, per sapere come comportarsi. Invece la guerra è ovunque: dentro le anime divorate dal dolore e dal rimorso, come dentro le famiglie, sui posti di lavoro, tra le case, le chiese, i locali del karaoke. I rumori non risolvono nulla: gli spari si perdono nell’aria vuota della campagna, come lo sfogo di chi non sa a chi rivolgersi, e non vede rimedio. Le campane fanno perdere la calma. Il rosario dei morti assomiglia a un futile cicaleccio tra donne. Anche i segreti sussurri d’amore prendono una piega anomala, e diventano discorsi tra sordi.  Un vecchio contadino parla da solo, nel buio e in mezzo al nulla. È la sintesi tardiva di una sofferta, faticosa ribellione alla mancanza di senso, agli eventi che accadono lasciando tutti insoddisfatti e inermi. Non c’è peggiore inquietudine che il fremito dell’immobilità, che, nel suo remoto rifugio, riceve comunque la visita dell’incoerenza, del mistero, del dubbio che le infligge un infernale tormento. Il conflitto è un motore universale, ed anche i territori più deserti e dimenticati sono vittime della sua invadenza. Il film di Danilo Caputo coglie i passi incerti e felpati con cui si muove nei luoghi dove l’incubo cerca la notte, perché il sonno è la sua dimensione ideale: il regno invisibile in cui i defunti ritornano, per contribuire anch’essi al caos, insieme al fracasso che viene dalla strada, al vagito di un neonato abbandonato in un cassonetto, alle ingiurie lanciate contro un povero prete, ai proclami di un sedicente guaritore, alla clamorosa vendetta di un fallito. L’andirivieni è inutile e impalpabile come l’alternarsi delle maree, che sfiorano la spiaggia lasciando tutto come prima: una superficie liscia e pulita, eppure ripassata all’infinito. Friabile e pesante come un cumulo di sabbia. Qualcuno dirà che in questa storia la lentezza è troppa. Che la frammentarietà la penalizza, la fa sembrare arrancante e non riuscita. La realtà è che nulla si potrebbe aggiungere, a quel delicato groviglio di fibre spezzate, senza farlo crollare, senza infrangerne la consistenza fatta del capriccio di un attimo: un ciuffo di peli e pulviscolo portato dal vento, e rimasto impigliato ad un ramo. 

 

scena

La mezza stagione (2014): scena

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