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L'età della pace

Regia di Fabio Carpi vedi scheda film

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La recensione su L'età della pace

di OGM
8 stelle

Le parole uccidono. Le parole tengono in vita. Il cinema di Fabio Carpi è una riflessione appesa al loro affanno. Il loro respiro può essere appesantito dalla passione, ma anche dalla stanchezza: dal dovere di seguire la strada segnata, l’attrazione a cui non si può resistere o l’irrefrenabile corsa del tempo. Abbandonarsi costa fatica. Che si tratti di lasciarsi andare all’istinto dell’amore oppure al richiamo della morte. In questa storia un uomo dialoga con la sua vecchiaia: con l’esistenza che cerca una via d’uscita, e, non trovandola, continua a riempire l’attesa di progetti di fuga, e di empiti di rassegnazione. Chi non può più agire, prende a (ri)costruire con la mente: i lontani ricordi di guerra, il nuovo rapporto con un amico immaginario. Il protagonista di questo film ascolta se stesso, mentre i discorsi degli altri cadono nel vuoto: a nulla servono i tentativi di avvicinamento da parte del figlio, della nuora e della nipotina. Lui li sta a sentire, ma non li capisce, e l’incomprensione, d’altronde, è reciproca. Per lui l’unico significato ancora valido è quello fantasioso dei sogni, che, però, anziché essere proiettati verso il futuro, sono volti ad inventare un epilogo decoroso per il  passato.  Quell’uomo vive solo fuori dalla realtà, in un mondo interiore in cui le cose hanno voce, anche quelle inesistenti, come il gallo di una favola, il compagno ormai scomparso, il vento, il deserto, forse Dio. Non volendo stare fermo, ed essendo confinato in un appartamento silenzioso, prende a viaggiare col pensiero, inanellando le frasi di un dramma in cui i suoi interlocutori sono per lo più invisibili, benché siano i precis riflessi del suo essere. Ad essi dirige le sue invocazioni, le sue domande, ricevendone gli echi come risposte, sempre serie, ma mai definitive. Si può narrare una storia anche così, tracciando l’andirivieni del dubbio, come una spola che percorre il tessuto scarno della solitudine. L’anima si mette a riannodare i fili sparsi delle imprese che non hanno avuto l’esito sperato. Molti dei loro capi sciolti sono rimasti in volo, e si sono poi consegnati all’oblio. Di quella rivoluzione combattuta in  gioventù non resta che il suono di una canzone che nessuno conosce più. Gli ideali sono evaporati in musica: sono bellezza votata alla dissoluzione, come un film muto che si interrompe dentro un televisore che si spegne per sempre, o come una danza che rischia di infliggere il colpo di grazia ad un cuore malato. Se il ritmo non può più essere veloce, il racconto può però essere denso, aderendo alla concitazione di un tramonto che vuole assaporare tutto se stesso, prima che venga la notte.  Non c’è pace nell’età finale, con quel risucchio che sollecita la ragione a giungere alle conclusioni, a rinunciare alle incertezze e alle divagazioni, per andare incontro al senso ultimo. Questo film ci conduce attraverso un angosciante percorso che non ammette deviazioni, eppure non può fare a meno di uscire continuamente di strada, inseguendo l’inquietante chimera di un’alternativa ancora possibile. 

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