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Il coraggio quotidiano

Regia di Evald Schorm vedi scheda film

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La recensione su Il coraggio quotidiano

di spopola
8 stelle

Un dramma davvero di grande qualità: la materia è molto forte (lo spinoso tema del tradimento degli ideali trotskisti della Rivoluzione) così come l’atmosfera, particolarmente idonea a rendere palese il senso di spaesamento che il soggetto richiede, merito di una regia che ha saputo dare il giusto ritmo a tutte le azioni coordinate della storia.

Le qualità registiche  del cecoslovacco  Evald Schorm (Praga, 15 dicembre 1931 – Praga, 14 dicembre 1988) ci furono rivelate grazie al Festival di Locarno del 1966 dove fu proiettato con successo (vinse il premio assegnato dalla giuria dei giovani) questo suo Kazdy den odvahu (da noi Il coraggio quotidiano) considerato poi dai critici del tempo come una delle più interessanti sorprese di quella stagione.

Chi avrà modo di approcciarsi a questa pellicola, troverà sicuramente conferma dell’indubbio talento (ancora in formazione) del regista all’epoca poco più che trentenne, e soprattutto della sua serietà di approccio alla particolare materia che viene sviluppata nel film (dolorosa e sofferta parabola esistenziale sulla caduta delle utopie e del conseguente brusco risveglio dal sogno vissuta in prima persona da un uomo che all’improvviso è costretto suo malgrado, a fare i conti con la triste realtà che lo circonda).

Le premesse erano state infatti talmente in positivo, da farci sperare in una possibile apertura di credito incondizionata nei suoi confronti per successivi impegni altrettanto importanti. Si poteva insomma immaginare per lui un più che luminoso futuro in divenire (inteso come una carriera in crescendo anche sul piano internazionale che purtroppo invece non c’è stata poiché il sistema gli ha subito e inopinatamente voltato le spalle e tarpato le ali).

Qui in Italia in particolare, siamo stati addirittura privati del piacere di poter verificare dal vivo quello che – in veste di regista – ha realizzato dopo  (sappiamo che Schorm è stato pure un valente sceneggiatore e un discreto attore, ma anche di questo ci rimangono soltanto poche e sporadiche testimonianze), poiché dopo questo interessantissimo exploit (una specie di  “romanzo giallo dell’esistenza” come fu definito all’epoca),il suo nome è rimasto quello di un perfetto sconosciuto (una specie di “Carneade, chi era costui?” di manzoniana memoria) a causa della miopia congenita della nostra  distribuzione cinematografica che non ci ha offerto altre occasioni di confronto (e all’epoca purtroppo non c’era nemmeno la rete a supportarci per poter colmare certe inammissibili inadempienze).

Ci sono  giunte  pochissime notizie anche dalla sua  patria però poiché di fatto sappiamo soltanto che nemmeno lì è  stato  molto prolifico, sicuramente a causa dell’ostracismo messo in atto da un regime teso a impedire ogni libera espressione culturale che non fosse inquadrata negli  schemi autoritari e ossequienti imposti dal Partito (e a questi totalmente asservita), non solo nei suoi confronti (questo suo film contiene una critica feroce al culto della personalità e alla prepotenza coercitiva esercitata dalle autorità statali in una società di stampo comunista come quella che teneva sotto il pugno di ferro la Cecoslovacchia di quegli anni) ma in quelli di tutta la corrente “Nová Vina” alla quale aveva aderito, così invisa al potere esecutivo, da essere prima mal tollerata,  poi censurata in ogni modo possibile e alla fine totalmente emarginata.

I dati che ci sono pervenuti, circoscrivono infatti in un numero abbastanza limitato – addirittura inferiore a dieci -  le opere che ha potuto realizzare nella sua abbastanza breve vita,  ma delle quali abbiamo solo la conoscenza certa dell’episodio da lui diretto nell’opera collettiva Perlicky na dne [Perline sul fondo] ispirata ai racconti  di Bohumil Hrabal[1] girata nel 1966 insieme a  Jiri Menzel, VeraChytilova, Jan Nemec e Jaromil Jires). – vedi recensione di @sasso67 leggibile – per chi è interessato ad approfondire l’argomento  - digitando il link //www.filmtv.it/film/42501/perline-sul-fondo/recensioni/474401/#rfr:film-42501

 

Le rivoluzioni passano, ma la condizione umana rimane sempre la stessa.

 

Dovendomi  basare giocoforza su questa unica pellicola, non posso dunque che sottolineare la potenza     espressiva del regista e il suo sostanziale pessimismo, quasi che avesse inteso lanciare un  messaggio aspro ed accorato nel mettere in scena (con toni in cui ci si potrebbe ritrovare persino qualche sotterraneo riferimento alla poetica kafkiana) la parabola esistenziale di questo giovane funzionario comunista che all’inizio della storia crede di aver trovato il senso della propria vita (e ne è addirittura fiero) nel personale impegno al servizio totalizzante del regime, ma che dovrà però ricredersi amaramente fino a disconoscere questa sua fedeltà ideologica al partito, quando si troverà a scontrarsi con una realtà ben diversa da quella immaginata che lo porterà a scoprire il marcio che c’è dietro ai processi tutti politici delle epurazioni dei  primi anni ’50 e sarà di conseguenza costretto a fare i conti con una profonda crisi morale che lo segnerà profondamente e dalla quale gli sarà impossibile uscirne fuori indenne. Perché Jarda (questo è il suo nome) è tutt’altro che un soldatino di piombo che accetta tutto a prescindere, ma è al contrario un giovane piuttosto problematico (così ci viene presentato fino dall’inizio) che pur  con una fede intonsa in quell’ideale utopico di uguaglianza (mai però del tutto allineata al pensiero comune), si pone sempre domande su ogni cosa, pretende risposte chiare e convincenti e ama  andare in  fondo alle questioni. Un uomo insomma che ha connaturato nel suo carattere più intimo una profonda contraddittorietà che lo porta a discutere  persino con se stesso su ciò che gli sembra essere giusto o meno senza fermarsi alle sole apparenze o a quello che sembra essere l’orientamento della maggioranza. Il suo è quindi un percorso (anche umanamente parlando) molto travagliato che genera conflitti sempre più articolati e che finiranno inevitabilmente per  modificare radicalmente il suo posizionamento di pensiero fino alla tragica risoluzione conclusiva.

 

Kafka certamente dunque,  ma solo per il senso di smarrimento e di angoscia di fronte all'esistenza  che prova il protagonista della storia, poiché  le problematiche che troviamo disseminate in questo film (non dissimili da quelle che si riscontrano in molte altre opere cinematografiche realizzate in Cecoslovacchia in quel periodo) sono talmente piene di idee, di motivi, di fermenti, di  interessanti contenuti e di interrogativi, da non permetterci in alcun modo di liquidare frettolosamente il tutto rimandando semplicemente lo spettatore alla letteratura mitteleuropea del primo novecento con lo scrittore praghese in testa,  che può  evidentemente essere utilizzata, ma solo  per comprendere meglio la  crisi psicologica che pervade il nostro giovane “eroe” (si fa per dire) e lo costringe a fare  un'attenta analisi introspettiva su se stesso e il suo percorso formativo che lo porterà a decreare più che il suo personale fallimento, quello dell’intero schema sociale comunista. Dentro a Il coraggio quotidiano c’è evidentemente anche  tutto questo, ma dal contesto emerge soprattutto  la complessa realtà del preciso momento storico di riferimento (gli anni ’60 e la dominazione sovietica degli stati satellite diventata ancora più pressantemente soffocante nei dieci anni trascorsi dai  tragici fatti di Ungheria).

 

Sintetizzando quindi,  Evald Schorm  con questo film  attraverso  il sofferto percorso di un uomo che prende coscienza degli abusi e della corruzione del sistema, ci ha raccontato l’inevitabile, insanabile scontro dei teorici ideali comunisti gonfiati dalla propaganda, con la cruda realtà della loro realizzazione pratica,  una scoperta talmente sconvolgente, che lo porterà  a scrollarsi dalle spalle il retaggio di convinzioni ormai stratificate ma non più convincenti per chi mantiene una coscienza autonoma, e arrivare così alla fine, al rifiuto totale del conformismo ideologico imposto dal partito per aprirsi invece a una nuova visione della vita in relazione al sorgere e al maturare di nuove e più complesse problematiche non solo economiche e sociali, ma anche di natura esistenziale.

Una presa di coscienza insomma non più condizionata da una concezione dottrinale da accettare ciecamente come fosse vangelo, che diventa una costante, tenace, coraggiosa  e sofferta ricerca personale  (il coraggio quotidiano appunto)  tesa ad individuare senza più certezze preconfezionate, la direzione più giusta da seguire e  smascherare così, buttandoli alle ortiche,  i limiti condizionanti  delle fallaci promesse “messianiche” subdolamente suggerite dal sistema.

In questo contesto, il casting è davvero di lusso e la regia opportunamente cupa e avvincente. Non ci rimane dunque altro che da apprezzare elogiandola, la solidità della rappresentazione, l’invidiabile rigore narrativo che non scade mai nell’insincerità (o peggio ancora nell’insidioso vezzo di voler fare “poesia ad ogni costo”)  con cui Schorm riesce a condurre mirabilmente in porto una vicenda fortemente conflittuale come questa evitando  totalmente la trappola della retorica dei sentimenti.

Un ammiratore convinto del film fu Lindsay Anderson che, pur nella diversità delle tematiche di fondo trattate, ci aveva trovato dentro molte analogie con il suo This Sporting Life (Io sono un campione) che lo precede appena di qualche anno. Secondo il regista inglese, in entrambi, viene posto al centro della storia  una figura che cerca di sfuggire alle forze repressive di una società contro cui si ribella, ma che alla fine riuscirà  – purtroppo – ad avere la meglio e a uscire vincitrice nonostante l’impegno e la dedizione posti al servizio della “verità”.

 

Sinossi

 

Il protagonista della nostra storia, è un militante comunista sui trent’anni, funzionario  dell’Unione della Gioventù, operaio modello, e uomo seriamente impegnato nella vita pubblica.

La cornice è quella di una cittadina industriale cecoslovacca in cu nonostante la pressione delle istituzioni,i è ormai ampiamente diffuso, anche se in forma sotterranea, il senso di disagio di una generazione (quella cresciuta immediatamente dopo la fine dello stalinismo), sostanzialmente impreparata a confrontarsi con le contraddizioni del nuovo corso politico sempre più degradato e pieno di lotte intestine e di evidenti abusi di potere. Cominciano così a  serpeggiare irrequietezze e  dubbi  che non trovano più adeguate risposte nella monolitica  società costruita dai loro padri (il conflitto fra generazioni e ideologie, è dunque un altro di temi centrali della pellicola[2]) E’ soprattutto Jarda a non riuscire a stare ancora al passo col presente nel suo non essere capace di svendere le proprie idee in cambio del successo come vede fare agli altri, e questo lo mette profondamente in crisi perché lede dal profondo la sua fede (sempre meno intonsa). Cerca di trovare confronto a queste sue prime delusioni politiche, fra le braccia di Vera, la sua ragazza (anch’essa vittima di una nevrosi dilagante che coinvolgerà  l’intera sua generazione) che cerca inutilmente di  ridargli fiducia col suo amore. Ben presto infatti il giovane si rende conto che nemmeno lei  capisce fino in fondo i  dilemmi etici e morali che lo dilaniano e che dunque può solo contare sulla propria forza e determinazione per cercare di risolverli e dare così nuovamente un senso alla sua esistenza.

La crisi politica di Jarda raggiungerà il suo punto culminante in occasione di uno spettacolo in un teatrino di provincia dove il giovane è chiamato a fare un discorso sulla responsabilità pubblica delle nuove generazioni al termine del quale viene reso particolarmente esplicito l’abissale distanza ormai esistente fra ciò che dice quasi per forza di inerzia, e il suo attuale comportamento sfiduciato, il che genererà una reazione che lo porterà a picchiare a sangue un giocoliere-illusionista (Borek, un giovane “borderline” che vive di espedienti e sogna impossibili evasioni verso paesi lontani), che l’aveva coinvolto in un innocuo gioco di prestigio.

Non sarà però questo l’unico atto violento della sua crescente disperazione poiché provocherà anche una rissa furibonda in una taverna all’interno della quale accuserà i pacifici clienti intenti a bere, di aver tradito la rivoluzione. 

Dopo  un’occasionale avventura con la moglie dei giornalista vendutosi al sistema per convenienza politica, troverà il “coraggio” necessario per  dare una soluzione alle sue crisi davvero irreversibile (non so quanto condivisibile poiché potrebbe apparire – e forse lo è anche - come un imperdonabile atto di rinuncia e di sconfitta) che – se vogliamo proprio fare una questione di lana caprina - rimane il punto più discusso (e discutibile) dell’intera pellicola (o almeno quello sul quale è necessario fare una seria riflessione).

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[1] Bohumil Hrabal (Brno, 28 marzo 1914 – Praga, 3 febbraio 1997) è stato un importante  scrittore cecoslovacco da noi conosciuto soprattutto  per essere l’autore del romanzo da cui nel 1966 Jirí Menzel trasse il soggetto (sceneggiatura scritta a quattro mani da  Menzel  e dallo stesso Hrabal ) per il film omonimo da lui diretto (Treni strettamente sorvegliati) che nel 1968 si aggiudicò il meritato premio Oscar quale migliore pellicola in lingua straniera di quell’anno (recensioni di @SillyWalter (//www.filmtv.it/film/21241/treni-strettamente-sorvegliati/recensioni/818786/#rfr:film-21241 ) e ancora di @sasso67 (//www.filmtv.it/film/21241/treni-strettamente-sorvegliati/recensioni/184419/#rfr:film-21241 ).

Oscure e mai del tutto chiarite le ragioni della sua dipartita avvenuta a seguito della caduta da una finestra situata al quinto piano di un ospedale in cui lo scrittore era ricoverato per una  malattia nemmeno tanto grave. La versione ufficiale, è quella che si sia trattato di un fatto accidentale dovuto al suo sporgersi troppo in avanti per dare da mangiare a dei piccioni, ma ci sono forti dubbi che si sia trattato invece  di un suicidio volontario,  suffragato da una circostanza assai particolare che ha il sapore più che di un proposito a lungo maturato, di una vera e propria premonizione: quasi un decennio prima Hrabal  aveva infatti scritto in un suo libro (Il flauto magico, 1988) : “Quante volte avrei voluto buttarmi dal quinto piano, della mia casa, in cui tutte le stanze mi fanno male, , ma l’angelo all’ultimo momento mi salva sempre, mi tira indietro, come dal quinto piano voleva buttarsi il mio Dottor Franz Kafka  dalla sua Maison Oppelt”. (per saperne di più, http://www.treccani.it/magazine/cultura/Lo_scrittore_sepolto_nella_cassa_di_birra.html#  o meglio ancora,  leggere il libro scritto da Aleksander Kaczorowski  “Il gioco della vita. La storia di Bohumil Hrabal” pubblicato anche in Italia (edizione e/o) nel 2007.

Molti dei libri della ingente produzione letteraria di Hrabal, uno dei più importanti scrittori del ‘novecento (e quindi da leggere assolutamente) sono disponibili in edizione italiana pubblicati  in prevalenza da Sapiens, Edizioni e/o, Einaudi, Mondadori e Guanda: “Le sue descrizioni anti-eroiche, ricche di elementi grotteschi, di vicende quotidiane minime sempre ai limiti del paradosso, collocano Hrabal sul filo del surreale. L’ambientazione popolare e popolaresca lo lega ai mondi narrativi di Jaroslav Hašek più che a quelli di Franz Kafka o ad altri scrittori più ‘intellettuali’. La sua prosa burlesca aderisce infatti  al parlato popolaresco, in un flusso ininterrotto di invenzioni e di ‘chiacchiere’ molto efficace ed anche ‘divertente’. La facilità di lettura cela però un complesso intrico di combinazioni e derivazioni linguistiche, con disinvolti registri lessicali che lo rendono  di un inestimabile valore letterario” (fonte Wilkipedia).

 

[2] Si vedano al riguardo non solo i rapporti fra Vera (la ragazza di Jarda)  e i suoi inquilini (l’anziana coppia completamente tagliata fuori dalla realtà dedita ormai soltanto  a compiere piccoli e crudeli dispetti), o quelli che intercorrono fra Jarda e il giornalista ormai  completamente integrato nel sistema, talmente conformizzato per opportunità politica, da svolgere meccanicamente il suo lavoro di perfetto burocrate  dello Stato e diventare così  la sua cassa di risonanza,  ma anche e soprattutto, quelli che contrappongo  la “purezza” del giovane  attivista all’arrivismo  dei suoi ex compagni che ormai  viaggiano in fiammanti auto e che – mostrando un’ipocrita comprensione  nei suoi confronti - lo considerano di fatto un perdente rimasto inesorabilmente  inchiodato al “nastro di partenza”. 

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