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The Good Life

Regia di Niccolò Ammaniti vedi scheda film

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La recensione su The Good Life

di barabbovich
7 stelle

Ai più, il flirt tra lo scrittore Niccolò Ammaniti e il cinema finora era noto grazie al consistente saccheggio dei suoi romanzi tradotti per il grande schermo: L'ultimo Capodanno, Branchie, Io non ho paura, Il siero della vanità, Come Dio comanda, Io e te. Con questo documentario, il romanziere romano fornisce un segno esplicito del suo legame tutt'altro che furtivo con la settima arte. E lo fa passando dietro la macchina da presa e portando alla ribalta tre storie esemplari di altrettanti italiani (due veneti e un piemontese), tutti sulla sessantina, diventati idiosincratici all'Italia e stabilitisi in India. Allo sguardo dell'occidentale, forgiato dalla razionalità del mondo greco che gli ha dato l'imprinting, il confine tra realtà e stereotipo non potrà che apparire labile: due delle tre storie raccontate dagli stessi protagonisti riguardano quelli che qui chiameremmo santoni, persone più interessate alla spiritualità che alla religione, come sottolineano entrambi. Tutto secondo cliché, dunque. Ma si rimane incantati dalla capacità affabulatoria dei tre, dalle storie che stanno alle loro spalle, dal bisogno comune di affrancarsi da un Paese come l'Italia capace di trasformare gli uomini in polli di allevamento, di irreggimentare la vita di chi ambisce a posizioni defilate, ai margini della società. E se dalle parole dei due baba si indovina un percorso che parte dal movimento hippy e arriva in India per vie traverse, al crinale tra ricerca spirituale e sballo, in quelle di Eris, il costruttore di Treviso che ha la III media, si legge un'avversione radicale all'intero modello occidentale, congiugato con una visione spenceriana della società, del tutto avversa a qualsiasi forma di democrazia. Sentendolo parlare, uno come lui farebbe sembrare gente come Salvini e Borghezio dei morotei ingessati. Nonostante ciò, questo "nomade visitatore del pianeta" - come si autodefinisce - è riuscito a costruire case in legno e pietra ai confini con l'Himalaya, diventando l'artefice di un intero villaggio del quale si autoproclama capo e in cui ha avviato persino un progetto di recupero di ragazzi di strada. A lui e agli altri due protagonisti va attribuita gran parte del merito della riuscita di un documentario montato senza virtuosismi, ma efficacissimo nel riuscire a rendere leggibile la dialettica caduca tra Oriente e Occidente che alberga all'interno della stessa persona.

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