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Il racconto dei racconti

Regia di Matteo Garrone vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il racconto dei racconti

di Lehava
9 stelle

 

Le fiabe sono "l'espressione più pura dei processi psichici dell’inconscio collettivo e rappresentano gli archetipi in forma semplice e concisa ". E "...l'inconscio collettivo è una parte della psiche ....." il cui .... "contenuto ... è formato essenzialmente da "archetipi". Il concetto di archetipo, che è un indispensabile correlato dell'idea di inconscio collettivo, indica l'esistenza nella psiche di forme determinate che sembrano essere presenti sempre e dovunque”. Le immagini scorrono sullo schermo, e sì, mi pare sempre più evidente: devo dimenticare Jung, per almeno la prossima ora e mezza! Sospendere la mia poca infarinatura di psicologia moderna. E certo, come aspettarsi "introspezione" laddove essa non potrà mai esserci? Non si muovono persone qui, quanto piuttosto personaggi. Senza nomi propri - salvo, per motivi strettamente pratici, i due gemelli- emblematici di un ruolo sociale ed economico, intellettuale ed emotivo. Personalità ed individualità sono molto di là da venire. Così come secoli distanziano la materia in questione ("Cunto de li cunti" 1634-1636) dalla mia (nostra?) formazione culturale contemporanea fortemente debitrice al neoclassicismo ed al romanticismo, anche solo per completamento di una evoluzione narrativa che si chiama romanzo moderno. Che sono (siamo?) richiamata con vigore a rifuggere, nella sua essenza borghese qui del tutto assente. Eccomi, dunque là: mi rivedo. Sprofondata nella poltroncina, a tratti chiudo gli occhi: "E che cavoli! Che schifo! Mamma mia, che sbucherà mai da quel buco?" Ora, ripensandoci, mi pare tutto così ovvio: solo passando oltre una definizione anacronistica e semplicistica, quale "fantasy" può essere; azzerando ogni dubbio sulle differenze fra favola - a cui oggigiorno si è più familiari - e fiaba; riacchiappando nella mente suggestioni visive seicentesche morbide sfocate e trucide, concedendosi qualche anno in meno (Carracci e la sua macelleria) e soprattutto qualche anno in più (ben oltre un secolo a dirla tutta) con Goya e le carni strappate del figlio divorato da Saturno, si può sperare di entrare nell'essenza di questo "Il racconto dei racconti": opera straordinaria, straordinariamente barocca per sperimentalismo del linguaggio e della retorica, e come l'arte barocca, alla ricerca perenne di una idea, che possa dar forma all'Infinito sopra e dentro di noi ed al finito fuori e attorno a noi attraverso il principio della meraviglia, il fantastico ed il simbolico, l'illusione del sogno, lo splendore della bellezza assoluta, l'orrido ed il perverso. Medioevo e Rinascimento sono lontanissimi. Qui c'è la vertigine: lo spettatore è proiettato in un tempo che è il sempre, ma a guardarlo bene non pure il mai; ed in uno spazio che è il qui e l'altrove. Dove ambientazioni celeberrime (Donnafugata, Castel Del Monte) sono mescolate a misconosciute (sebbene non di minor qualità ed intensità) in una alternanza di stili e colori: su tutto una luce che più naturale non si può esaltata da una fotografia rigorosa e limpida. Con pochi chiaro-scuro (alla Caravaggio per intenderci) per virare in maniera del tutto originale sulla dualità, non per forza di cose dicotomia, fra nitido e sfumato.

 

 

Richiede riflessione, questo "Il racconto dei racconti": le metafore chiamano la diretta partecipazione dello spettatore: la pelle scuoiata è la nostra: carne viva sotto ogni impalcatura culturale; il labirinto è il nostro: smarrimento davanti alla confusione dell'anima e del corpo, che palpitano senza ragione e senza controllo. Il metacinema come rifugio autoriale è dall'altra parte dell'universo. I personaggi sono solo personaggi ma ognuno di noi è protagonista sullo schermo e si porta dietro, inesorabile, il proprio bagaglio di crudeltà, egoismo, stupidità, eroismo.

 

Un film ammaliatore questo: dello sguardo e dell'intelletto. Ed il cuore? Il cuore se l'è ben mangiato la regina (il "The Guardian" tra i più entusiasti: "Critics eating their hearts out for Tale of Tales at Cannes film festival"): allo spettatore restano i brandelli sanguinolenti. Perchè se il barocco punta all'emozione diretta, "Il racconto dei racconti", che più barocco non parrebbe, rifugge l'emozione e nega l'immedesimazione per portarci in tempi e luoghi del pensiero del tutto astratti: di come eravamo e non siamo più. O come avremmo potuto o voluto o dovuto essere e non siamo stati. In questo senso, veramente reale e moderno. Dove può portare la cieca necessità personale della procreazione a tutti i costi? A sacrificare un marito come a comprare un utero in affitto nel terzo mondo oppure a spingersi oltre ogni confine che non c'è più, fra scienza e natura. Cosa si è disposti a perdere perchè l'equilibrio di un funanbolo che cammina su una corda sospesa fra una galassia e l'altra sia mantenuto? E se per qualche motivo i due estremi si spezzassero, separando ciò che è inseparabile? L'amore non ha limiti, né etici né morali: un padre può voler sempre vicino a sé la giovane figlia, giusto per capriccio. Mentre un re terrorizzato dalla caducità del corpo coniuga la lussuria con la noia: in un mondo in cui il desiderio è azzerato e tutto è ammesso e concesso, la vanità prende vie inaspettate verso lo sberleffo. Ed è così che ci si può invaghire di una voce, ci si lascia irretire da un dito, si sfida la morte fingendo di essere giovani, quando si è vecchi. E la finzione è talmente convincente che diventa realtà! In una corsa folle, ancora, al possesso ad ogni costo. Qualsiasi prezzo non è abbastanza alto: per la felicità. Quale felicità? Il successo sociale, l'avvenenza, la popolarità? Oppure la libertà? Quella di una donna di essere se stessa : cuore, ed intelletto e corpo. Quali le prove che saremo chiamati a superare? Saremo in grado di sopravvivere? Ognuno insegue la propria ossessione: ognuno, a proprio modo, saprà afferrarla. Per l'eternità o per un secondo.

 

Basato su un testo-non testo in napoletano, "Il racconto dei racconti", girato in lingua inglese, con un doppiaggio italiano di grande qualità (a parte A. Rochwacher), riesce a conferire la massima consequenzialità e logica possibile ad una narrazione di per sé disomogenea. Si avvale di una sceneggiatura semplice (a volte, fare le cose semplici è il difficile!), definirei "classica" che, rifuggendo la verbosità, mantiene un equilibrio invidiabile fra la propria necessarietà e la giusta prevalenza degli spazi registici: perchè Garrone, il suo stile, è ovunque. Per quanto l'ispirazione a grandi del passato e del presente sia innegabile, nessuna citazione è evidente, a dimostrazione di come rielaborazione ed originalità siano proprie di questo regista. Che qui fa assolutamente, totalmente, un passo "in dentro" fondamentale alla sua poetica; una magnificazione di ciò che era già presente altrove: dalla ambivalenza bene/male de "L'imbalsamatore", all'amore che si fa possesso e malattia di "Primo Amore", alla tragicomica distorsione del reale mista all'affanno e all' assillo di "Reality". La scelta delle inquadrature sembra sempre la migliore: dai campi lunghi ai primi piani, tutto ha un senso. Ed il montaggio riesce a conferire il ritmo giusto: si parte lenti, in costante crescendo. Molto è già stato detto sul sonoro, fuori campo, a cui certamente è stata dedicata grande attenzione. In sintonia perfetta con la scelta di una colonna sonora che rifugge la via più battuta di una linea melodica imperante: Desplait mai invadente o protagonista, eppure sempre confacente all'immagine. Un plus per la decisione, in alcune fra le scene più toccanti, di optare per il silenzio. Nulla da aggiungere alle ambientazioni: parlano meravigliosamente di sé. Fantasiosi ed insieme storicamente credibili (il gusto è sempre quello seicentesco) i costumi.

 

 

A proposito degli interpreti - tra gli altri:

 

Una regina è una regina: soprattutto in pubblico. Il controllo non è una variabile: è imprescindibile. A volte, quando si è imparato a controllare le emozioni, non si capisce più nemmeno se ci siano. Se si sia in grado di provarle: mummificati come si è nella inespressione di sé stessi. Salma Hayek? Perfetta.

 

Salma Hayek

Il racconto dei racconti (2015): Salma Hayek

 

Vanesio e libidinoso, sciocco e vuoto, come sono un re franzuso nell'immaginario italiano. Nulla contro i francesi ovviamente. Vincent Cassell? Perfetto.

 

Vincent Cassel

Il racconto dei racconti (2015): Vincent Cassel

 

Tony Jones: quasi inutile ribadirlo. Perfetto.

 

Toby Jones

Il racconto dei racconti (2015): Toby Jones

 

Sorprendente. Anche se, mi par giusto dirlo, dalla sua ha il personaggio oggettivamente più "bello": appassionata e coraggiosa. Impaurita e spavalda. Riempie lo schermo con un solo sguardo: e, tra l'altro, l'ovale del suo volto, l'azzurro dei suoi occhi, il biondo dorato delle sue ciocche, la morbida sensualità delle sue membra partecipano a tutti i possibili canoni estetici di principessa della fiabe. Bebe Cave? Perfetta.

 

Bebe Cave, Guillaume Delaunay

Il racconto dei racconti (2015): Bebe Cave, Guillaume Delaunay

 

Contro ogni intellettualismo, in bilico sul filo di un "genere" popolare troppo usurato da altrui letterature e filmografie che Garrone sa ammaestrare da autore vero quale egli è ; contro ogni aspettativa dei più per un cinema sociale contemporaneo, se non addirittura politico; contro l'emozione come arma di ricatto e strumento di consenso; contro "l'arte povera" che vuol sembrare povera anche quando non lo è; contro la ristrettezza del parlarsi addosso, in un mondo fatto a stivale che conta sempre meno e più si parla addosso e meno conta, "Il racconto dei racconti" si erge magniloquente ed ambizioso sopra le umane disgrazie. Ricordando a tutti noi la fragilità dell' uomo preda delle passioni e nel contempo riportandolo ad esse in un altrove che è qui dove solo l'amore come dono e non come pretesa può salvarlo.

 

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