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Latin Lover

Regia di Cristina Comencini vedi scheda film

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La recensione su Latin Lover

di LorCio
8 stelle

Bingo. Cristina Comencini non azzeccava un film da più di quindici anni, dai tempi di Matrimoni e Liberate i pesci!, altre antologie corali su affetti e segreti filtrate dalle crisi di madri di famiglia. La sua vera dimensione, deve averlo finalmente capito, è quella della commedia familiare, un po’ malinconica e un po’ allegra, in cui nessun personaggio sovrasta gli altri perché tutti caratterizzati da una storia personale tanto significativa quanto interessante. Latin lover è lo Speriamo che sia femmina contemporaneo: la grande commedia borghese sulle disfunzioni ordinarie d’un nucleo necessariamente matriarcale.

 

Le donne del film s’alimentano della presenza/assenza dell’unico uomo possibile, il grande attore internazionale, il marito, il padre, l’amante. Quello che all’apparenza può sembrare il racconto di una dipendenza di genere alla figura maschile si rivela all'opposto: nel suo disordine sentimentale, l’uomo non sa, non può e non vuole fare a meno di quelle donne, che, tutto sommato, si alleano anche quando non si tollerano. Un’alleanza che si nutre di una faticosa consapevolezza: l’esser state amate malgrado i problemi, le menzogne, i misteri sia dell’uomo che delle donne, che scientemente hanno continuato ad amare più il suo mito che lui stesso.

 

È un bel film, Latin lover, il vertice della produzione parca di Cristina Comencini, che arriva dopo più di un decennio di discutibili riflessioni sulle figure genitoriali (gli agrodolci di Il più bel giorno della mia vita e Bianco e nero, le tragedie La bestia nel cuore e Quando la notte). Seconda delle quattro figlie del mai troppo celebrato Luigi Comencini, Cristina mette in scena qualcosa di cui ha cognizione di causa: un cinema irripetibile abitato da personaggi che sembrano vivere come nei film interpretati, nostalgicamente ammirato per la sua componente divistica da rivista patinata e la sua libertà produttiva e quindi artistica.

 

Saverio Crispo, l’attore di cui si commemora il decennale della scomparsa, è una sintesi del divismo italiano maschile a cavallo tra gli anni cinquanta e settanta. Evoca Mastroianni (le citazioni di Divorzio all’italiana, Ieri, oggi, domani, l’internazionalismo anche sentimentale), Gassman (Brancaleone, Il sorpasso, la depressione), Volonté (Lulù Massa, Indagine su un cittadino, gli spaghetti western), Tognazzi e Sordi (l’avanspettacolo, Mafioso, la Svezia), Rodolfo Valentino (la sessualità). Forse c’è qualche problema anagrafico nella carrellata così architettata, ma l’obiettivo non è filologico. Perfino la musica di Andrea Farri evoca le melodie del cinema che fu.

 

Il film della Comencini esprime la trasversalità di un attore in qualche modo improbabile (un divismo forse sovrabbondante, malgrado il critico onnisciente ed amico fraterno Toni Bertorelli lo etichetti come “un genio”) per esorcizzare con affetto i fantasmi del dietro le quinte (il gossip è un elemento capitale della storia), giungendo ad una sintesi di leggerezza in cui la scoperta degli altarini provoca certamente un domino di crisi ma anche e soprattutto una “normalizzazione” nella percezione del grande assente/presente del film, le cui manchevolezze sono state gradualmente scacciate dalla sua capacità di amore.

 

Il personaggio del fascinoso Jordi Molla, marito della figlia spagnola (una strepitosa Candela Peña), porta in sé i germi del divismo di Crispo (che ha il volto e il corpo antichi di Francesco Scianna), come a voler alludere alla simpatica banalità del suocero: il tradimento non è un dramma, ma un’inevitabile consuetudine. L’inadeguatezza di ogni figlia nel relazionarsi con un morto mai del tutto defunto si lega proprio a questa mitizzazione che non permette loro una “vita decente” (come capisce Angela Finocchiaro sottilmente isterica) oppure di liberarsi dell’ausilio di un dottore (ed è il caso di Valeria Bruni Tedeschi, splendida nel suo buffo nervosismo) o della naturalezza delle passioni furenti (la figlia svedese, Pihla Viitala).

 

Film sentito e sincero, giocato su un perfetto bilanciamento di commedia e melodramma che si perde un po’ nel pre-finale, fin troppo tendente ad una commozione non del tutto ben inserita, e nella sua volontà di voler mettere tutte le cose a posto, vive delle due sapienti interpretazioni di Marisa Paredes e Virna Lisi, veri saggi di recitazione: la prima va di minimalismo smagliante in bilico tra dolce memoria e celata inquietudine; la seconda torna al cinema per l’ultima volta con una felicità, un’eleganza e una delicatezza rare. A lei è dedicato il film, che a suo modo racconta la necessità di un congedo sereno.

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