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Youth - La giovinezza

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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La recensione su Youth - La giovinezza

di Zagarosh
6 stelle

A due anni di distanza da La Grande Bellezza, il film che ha fatto nuovamente vincere al nostro Paese la tanto ambita statuetta dopo quindici lunghi anni di attesa e che ha diviso critica e pubblico in estasiati ammiratori e feroci detrattori, Paolo Sorrentino torna sul grande schermo con quella che lui stesso ha definito la sua “opera più intima” (almeno nelle intenzioni). Dopo essere riuscito laddove Flaubert aveva ceduto, mettendo in scena una storia che avesse come protagonista il nulla, laffresco di unumanità sempre sullorlo di una crisi di nervi e impegnata a sprecare nel peggiore dei modi il suo tempo, il regista partenopeo si concentra ancora una volta su di un tema vasto e universale, la vecchiaia, regalando al pubblico la sua personale consolatio de senectute.

 

Lo scorrere inesorabile degli anni comporta la decadenza dei propri orizzonti culturali: a fronte di una cristallizzazione del sapere acquisito, che sacrifica la giovanile curiosità per il nuovo, diviene impossibile per ognuno di noi comprendere i meccanismi evolutivi del mondo che ci circonda, integrando nuovi punti di vista con la nostra personale concezione della realtà. Dall’altra parte, però, la senescenza porta inevitabilmente alla negazione del superfluo e ci spinge a concentrarci solo su quello che è realmente essenziale per la nostra esistenza. La fuga dalla caducità, allora, può essere realizzata solo attraverso il faticoso processo di accettazione del presente, praticando una ars moriendi che porti alla riappacificazione ascetica con il senso della fine che opprime la nostra vita.

 

Nella pellicola il regista si sofferma sulla modificazione del rapporto tra i protagonisti e i centri pulsionali dei loro processi psichici, come il progressivo deperimento dellappagamento sessuale. Inoltre, se la gioventù appare innanzitutto in relazione con lo spazio e nel presente, la vecchiaia dei due uomini al centro della vicenda vive esclusivamente nella dimensione storica del proprio vissuto, in un tempo kantianamente inteso come “senso interno”. Per questo, invecchiare vuol dire anche divenire estranei a se stessi. I due anziani protagonisti della pellicola, sempre immersi in bagni termali e coccolati da massaggi, vivono un otium che permette loro di esprimere un distacco cosciente e critico rispetto all'esistente e che, in un ambiente chiuso e condizionato come quello musicale e cinematografico, può assumere addirittura una carica rivoluzionaria. Ma questa costante ricerca di atarassia, il distacco progressivo da tutto ciò che li circonda, è anche analizzato nel suo aspetto più doloroso: il sentirsi un estraneo anche tra i propri famigliari (splendido lo sfogo di Rachel Weisz contro il proprio padre).

 

Il tempo ha un ruolo centrale sia come fattore intradiegetico che extradiegetico, e la vecchiaia si configura come momento dell’anamnesi, del racconto, come un tempo fatto di ricordi che “non affiorano se non vai a scovarli negli angoli più remoti della memoria” (N. Bobbio). Ma dimenticare è come perdonare, e i dialoghi tra i due protagonisti, nella loro difficoltà a ricostruire il proprio passato, ricordano quelli di Abele e Caino ne L’elogio dell’ombra di Borges, quando i due fratelli si incontrano nuovamente dopo tanto tempo e nessuno dei due ricorda più chi ha ucciso chi. Perdonare gli altri e, parallelamente, condannare se stessi, rivelare la drammaticità delle proprie esperienze di colpa, confessarsi responsabili delle personali cadute e del male procurato.

 

A elevarsi al di sopra del tempo e della volontà, alla fine, è solo la musica, arte profonda e universale in grado di metterci in contatto con le radici stesse della nostra vita. La musica riesce a sottrarre gli individui dalla sfiancante e infinita catena delle necessità e dei desideri quotidiani, ponendosi come autentica e disinteressata contemplazione, in grado di liberare catarticamente l’uomo dal proprio dolore attraverso una trasognata alienazione dalla realtà. Ma soprattutto, riscattando tutti noi dall’orrore e dalla disarmonia in cui siamo immersi, ci purifica da una aporetica condanna al disordine, rendendo accettabile persino il nonsenso esistenziale.

 

Parafrasando Michael Caine, "la leggerezza è una perversione", ma il nuovo film di Paolo Sorrentino di leggero pare non avere proprio nulla. In più frangenti la pellicola sembra sprofondare sotto la spinta del suo stesso peso, a causa di un manierismo fin troppo compiaciuto che tenta di provocare e stupire lo spettatore senza però mai centrare completamente il bersaglio. Youth è prima di tutto un film di plastica, falso e fin troppo costruito, dove ogni cosa è studiata nei minimi dettagli tanto da creare una impenetrabile barriera tra regista e spettatore.

 

La nuova opera del premio Oscar è un film ambiguo: a tratti ridicolo, a tratti sublime. Una pellicola brillantemente vuota e banalmente controversa. Per questo le prevedibili provocazioni del regista, che gioca ancora una volta a ubriacare lo spettatore, ammiccando con sequenze oniriche da videoclip e suggestioni artistiche che vomitano pop, non riescono a ottenere il risultato sperato. Negli occhi di chi guarda non rimane altro che indifferenza. E se è vero che “le emozioni sono tutto ciò che abbiamo”, Sorrentino pare averlo dimenticato, non riuscendo a coinvolgere lo spettatore nelle personali vicende dei protagonisti (nonostante le ottime interpretazioni degli attori principali).

 

Sembrano lontani, quindi, i fasti de La Grande Bellezza dove, al di là della patina superficiale di una Roma prostituta giunonica carica di erotismo e inconfessabile desiderio, il regista riusciva con abilità a scavare nel profondo, rivelando un luogo spolpato dalla storia che, sotto tanta bellezza, come nel giardino di David Lynch in Velluto Blu, nascondeva in realtà un mondo marcio e corrotto. In Youth sotto la bellezza estetica e le formidabili inquadrature, rimane soltanto un senso di amarezza e delusione, che neanche gli splendidi venti minuti finali (che dimostrano quanto il regista partenopeo possa effettivamente dare al cinema italiano) riescono a cancellare. Ancora una volta sembra che i personaggi del film abbiano inconsciamente compreso le debolezze del proprio regista: se il direttore di orchestra ci insegna che la semplicità è anche bellezza, Youth, così artefatto e trionfalistico, rischia di crollare al primo colpo di vento. Niente è qui semplice o essenziale, ma si percepiscono solo “sforzi immani per modesti risultati”

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