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Youth - La giovinezza

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Youth - La giovinezza

di Utente rimosso (Cantagallo)
5 stelle

Senilità.

 

Consapevole dell’importanza strategica dei titoli, Paolo Sorrentino ha scelto molto attentamente il nome di questo suo ultimo lavoro, con criterio analogo a quello adottato per il precedente, e cioè stabilendo a priori un baricentro tematico che non necessariamente corrisponde a quello dell’opera. Nel 2013 è stato La grande bellezza, uno psico-titolo che ci ha indotto a cercare la bellezza nel film, ad attenderla, finanche a constatarne la sostanziale mancanza ma insomma attorno a quell’oggetto attraente e sfuggente si sono inevitabilmente concentrate le nostre aspettative. Nel 2015 si tratta di un altro tra gli impagabili doni della vita, ovvero La giovinezza, ad essere preannunciato da un titolo assai suggestivo e promettente, ma che sembra piuttosto scelto per contrappasso, o per convenienza, poichè la giovinezza, che si lascia contemplare e rimpiangere dai due attempati protagonisti, di fatto rimane elemento passivo e non ci impedisce di constatare che nella pellicola di “giovane”, almeno nello spirito, non c’è molto. 

 

Non c’è da stupirsi poichè si tratta della vocazione opulenta, indolente e tendenzialmente geriatrica di Sorrentino, divenuta ormai stile tanto riconoscibile da sovrastare l’opera stessa e far quasi sentire ingenuo lo spettatore che ancora si ostina a domandarsi cosa c’entra questo personaggio, cosa avrà voluto mai dire con quella scena e, soprattutto, come poter tesaurizzare il film. Proviamo a lasciare un attimo da parte la possibilità - legittima - di identificare l’opera con il suo autore approcciando entrambi in modo assoluto (posizione riassumibile in un tautologico “Sorrentino è fatto così” a cui non ci sarebbe molto da aggiungere) e poniamoci invece qualche ingenuo dubbio sulla consistenza della pellicola in se’.


L’ambientazione sembrava già eloquente: un habitat filmico ideale e collaudato, quello del “Grand Hotel”, che si presta perfettamente per allestire un mosaico di incontri, personaggi, situazioni componibili senza stringenti vincoli di coerenza narrativa o di compartecipazione tra le parti che non siano quelli funzionali alla singola scena. Nel lussusoso resort transitano infatti gli individui più disparati ed eccentrici, ognuno col suo sipario, mentre i due vecchi amici protagonisti osservano, ricordano e riflettono sulla vita passata. E’ chiaro che in una pellicola così statica e frammentata i dialoghi assumono un’importanza critica, e infatti ne La giovinezza si fa un gran parlare, spesso alla ricerca dell’aforisma-sentenza che colpisce. Finchè però si tratta dei monologhi il tutto rientra più o meno nello stile del regista, ma quando si tratta di dialogo tra personaggi si avverte che l’interazione rimane puramente verbale e la scrittura risulta forse d’effetto ma resta molto in superficie, senza lasciare eredità memorabili e in almeno un paio di casi (le confidenze tra padre e figlia in camera e il dialogo tra Harvey Keitel e Jane Fonda) piuttosto sottotono. D’altra parte, la spiazzante facilità con cui viene risolto l’episodio del tradimento subito da Leda mette immediatamente in chiaro che il registro è disimpegnato e che non saranno nè lo scavo psicologico dei personaggi nè la dinamica delle relazioni umane a conquistarci. In questo senso appare altrettanto ambiguo anche il sentimento dell’anziano direttore d’orchestra nei confronti della moglie: amata al punto di non voler mai più eseguire musiche composte per lei, ma ripetutamente tradita, e poi rappresentata nei suoi ultimi giorni in ospedale senza alcun tatto (in buona sostanza riappare “la santa” del film precedente, che mi ero augurata di non rivedere mai più). Il resto sono singoli mattoni, eterogenei e vagamente schizoidi, che riempiono una struttura evanescente, eretta per parlare di vecchiaia cercando però di dissimularlo.


La scelta di un cast illustre e internazionale, diretta conseguenza del passaggio di grado conquistato con l’Oscar, effettivamente ha giovato nel ridurre quello che è uno dei limiti nel nostro cinema e cioè un certo soffocante provincialismo (mai completamente debellato, in verità, considerato l’omaggio al campione della squadra del cuore peraltro già citato ritirando l’Oscar). Diverse però le opportunità riservate agli attori, perchè se gli ottimi Caine e Keitel ricevono adeguato spazio per esprimersi, l’enigmatico e pur professionale Paul Dano sembra invece chiedersi come mai abbiano scelto proprio lui per fare da spalla ai due colleghi senior mentre si sarebbe potuta valorizzare meglio anche la presenza dell’incantevole Rachel Weisz, piuttosto sacrificata a parte i bellissimi primi piani.

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