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Vergine giurata

Regia di Laura Bispuri vedi scheda film

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La recensione su Vergine giurata

di giancarlo visitilli
8 stelle

Siamo liberi di non essere, senza l’illusione necessariamente di dover per forza essere qualcuno/a per gli altri. Intensa, elegante, complessa e coraggiosa è l’opera prima di Laura Bispuri, da poco applaudita in concorso (unico film italiano) alla 65ma Berlinale.

La storia è quella di Hana Doda che, per fuggire al destino di moglie e serva imposto alle donne nelle dure montagne dell'Albania, segue la guida dello zio e si appella alla legge arcaica del Kanun. Una legge che consente alle donne che giurano la loro verginità di imbracciare il fucile e di vivere e agire liberamente come un uomo. Per tutti Hana diviene Mark, Mark Doda. Ma qualcosa di vivo pulsa e si agita sotto le nuove vesti. Quella scelta diviene la sua liberta e prigione. Quel luogo oppressione. E' così che Mark decide di intraprendere un viaggio a lungo rimandato. Lascia la sua terra, arriva in Italia e qui percorre un cammino che è un continuo e sottile attraversamento di due mondi diversi e lontani: Albania e Italia, passato e presente, maschile e femminile, illusione di libertà e realtà di condizionamenti. Durante questo percorso Mark decide di riappropriarsi faticosamente del suo corpo. Sperimenta la vertigine del contatto con gli altri, ritrovando persone care, amandone alcune, le stesse che la vita gli aveva sottratto. La sua storia sarà una continua attesa di amore, proibito, pensato, continuamente represso. Quando Mark (ri)scoprirà Hana, potrà, finalmente, ricomporre le due anime che da per anni hanno coabitato nel suo corpo. Rinasce al mondo come creatura nuova, libera e completa.

Laura Bispuri possiede un respiro di cinema ampio, universale. La sua regia è di un rigore formale e di un minimalismo capaci di mettere in atto la sensazione di abitare in un microcosmo, la cui chiusura è immedesimazione di libertà. La ricerca dell’identità di genere, invece, pura claustrofobia, al limite del breve respiro, a cui man mano si viene sottratti per essere introdotti nel corpo, nelle stringenti vesti, nell’intimo di una persona, per dirlo con la forza di Ingmar Bergman.

Il rigore stilistico della Bispuri è carattere, di un cinema votato alla sostanza, prosciugato e ridotto a quella poetica tipica di chi, non per nulla, in poesia, fu il precursore, in parte, dell’Ermetismo: la “poesia pura” di Giuseppe Ungaretti. Il cinema della Bispuri è puro, si tratta della stessa “poetica della parola”, di quella stessa operazione di scarnificazione e di riduzione del tutto all’essenziale. Perché in Vergine giurata tutto è espresso mediante la glaciale fotografia di Vladan Radovic, capace di rendere corporea l’aria, di fasciare i corpi con il bianco della neve e i grigiori delle esistenze, rimandando le ombre allo sguardo di chi immagina quel che sta oltre. Si tratta di un cinema tanto vicino a quello dei fratelli Dardenne, di Lucrecia Martel ma anche di Von Trier, si aper quanto concerne lo stile di ripresa e di montaggio (qui, insieme a Carlotta Cristiani c’è Jacopo Quadri), ma anche della narrazione. Insieme alle splendide musiche di Nando Di Cosimo, la cui linea melodica affidata al tremore degli archi crea un tutt’uno con la vita di Hana/Mark. Questi interpretati da una gigantesca Alba Rohrwacher: anima e corpo prestati al martirio. Ci si commuove dinanzi alla gracilità di uno sguardo privo di corporeità, alla ricerca di una sua materialità che sembra non avere mai consistenza. Perché la Rohrwacher, come la Bispuri, sottrae, al modo di quanto concentrato in un dialogo essenziale: “Perché la sposa ha il viso coperto?”, “Perché, se non vede la strada, non potrà mai essere capace di tornare indietro”.

Fra i paesaggi innevati, movenze acquatiche (ormai un “marchio di fabbrica” della Bispuri, come in altri suoi lavori) e uomini/donne nati storti, la regista romana, di cui sentiremo parlare sempre più negli anni, con uno sguardo attentissimo al cinema europeo, offre un’ottima prova di narrazione, in rapporto alla conoscenza della propria esistenza, senza evitare, però, il sommerso, capace sempre di emergere, per fortuna in un cinema italiano che si sta distinguendo, rispetto al fondale melmoso nel quale, come italiani, annaspiamo.

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