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Perez.

Regia di Edoardo De Angelis vedi scheda film

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La recensione su Perez.

di amandagriss
8 stelle

 

Il Centro Direzionale o CDN: agglomerato di moderni grattacieli che ricalca, in piccolo, il famoso skyline della grande mela.

Nelle intenzioni un’isola felice, dentro la città (nel quartiere di Poggioreale) e al contempo fuori da essa.

Il simbolo architettonico della nuova Napoli, l’emblema di un cambiamento radicale nei costumi e nella mentalità del popolo napoletano.

Il prodigioso seme innestato in una realtà arida, degradata, lasciata a se stessa.

Un’oasi abbagliante.

Un pugno nell’occhio, per quanto la sua architettura avvenieristica stride col vecchio, dimesso fatiscente (squallido) ambiente urbano circostante.

Una dimensione altra, che crea straniamento, che disorienta, che mette addosso un palpabile disagio.

Un mostro di cemento e ferro dalle mastodontiche perturbanti fattezze.

Freddo, impersonale, senza colore. Deprimente.

La particolare, ironica collocazione -nelle contigue vicinanze il carcere e il camposanto- fa del CDN una zona di passaggio obbligato metaforica, l’anticamera di un inferno bifronte da cui è impossibile sfuggire.

La promessa di una svolta, di una rinascita, di un futuro diverso è una promessa mancata.

Destinata al fallimento.

 

Il Centro Direzionale nel film di Edoardo De Angelis non è solo il contesto (perfetto) dove raccontare di anime sfatte, raggelate, a cui la vita ha regalato ben pochi sorrisi, ma diventa esso stesso personaggio, il protagonista urlante di un intimo malessere che ha messo radici e ha proliferato, l’emanazione fisica di una sottile inquietudine che, come la nebbia di primo mattino, s’insinua tra le pieghe di un apparentemente calma e tranquilla routine quotidiana, grigia come il cielo d’inverno, plumbea come la consapevolezza di annaspare nella disperazione insieme al piacere perverso di cullarcisi dentro.

 

La quadratura geometrica, la razionalità degli spazi, le superfici lisce e riflettenti, l’asetticità (concettuale) dominanti nel CDN dovrebbero rispecchiare un vissuto lontano se non addirittura immune dagli affanni che abitualmente logorano Napoli e chi la vive, e invece non sono altro che un miraggio, una realtà falsata, un simulacro che nasconde dietro la limpidezza e la luminosità accecante dell’intero comprensorio l’anima nera e marcia di una terra immobile e inamovibile, il volto deturpato dei suoi demoni, perennemente uguali a se stessi, nei secoli dei secoli, di generazione in generazione.

È il simbolo tangibile di come oggi si faccia più fatica di ieri a riconoscere il Male, individuarlo per riuscire a prenderne le dovute distanze.

Sempre più subdolo e ambiguo, non si arresta mai nella sua incessante operazione di trasformazione e di mimesi.

Si è costruito un’immagine. Ha imparato a vestirsi bene, a parlare bene, ad essere bene educato.

Oramai sfoggia una buona cultura, anche al di sopra della media, ha gusti raffinati, modi gentili, nobili intenzioni. Addirittura una coscienza.

Ama colloquiare e confrontarsi civilmente, tesse ragionamenti articolati e sfoggia una dialettica a dir poco invidiabile e argomentazioni ammirevoli.

Ma è pur sempre Male, e Male rimane.

 

Opera cupa e tenebrosa, cattiva e disillusa, che partendo dalla piagata realtà sociale partenopea s’incammina sulla strada del romanzo noir (e sue caratteristiche), riuscendo con successo ad emanciparsi dal racconto di denuncia fine a se stesso destinato alla fruizione di pochi, per poter arrivare ad una platea più vasta, ad un pubblico che disabituato al genere possa tornare a frequentarlo e rigustarlo. Per offrire una visione alternativa rispetto alla solita collaudata produzione nostrana di lavori o necessariamente leggeri o necessariamente impegnati.

Una storia più accessibile di quello che si può pensare.

Che con molta probabilità, in altri tempi, avrebbe sbancato al botteghino e, invece, una certa tangibile riluttanza accompagna la sua programmazione nelle sale.

Riluttanza che non ha risparmiato nemmeno chi scrive. Dovendo alla fine ricredersi.

Felicemente.

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