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Megan Is Missing

Regia di Michael Goi vedi scheda film

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La recensione su Megan Is Missing

di EightAndHalf
6 stelle

C’è una fondamentale ambiguità che va messa a capo dell’eventuale onestà di un prodotto dignitoso come Megan is missing, anche se potrà interessare solo gli appassionati. La storia si concentra sugli eventi tragici di due ragazzine americane che divengono vittima di un rapimento. Le televisioni degli USA pubblicizzano l’evento e, in uno dei quei programmi alla stregua di Chi l’ha visto?,  si spettacolarizza l’evento drammatico ricostruendolo come fosse vero con attori finti, addirittura con la pretesa di non permettere ai bambini di guardare perché le immagini “potrebbero essere particolarmente cruente”. Da qui la piccola parentesi anti-mediatica di quest’horror di tutto rispetto, che nell’era dell’immagine amatoriale e invadente di internet e delle infernali webcam inserisce in maniera affatto malvagia questa stoccata nei confronti di una televisione spazzatura che appiattisce tutto e si guarda bene dal problematizzare e contestualizzare gli eventi, solo per l’audience. Quanto, però, questo non si ripresenta proprio in tutto il film? È evidente che il film è finzione, e che è fatto in qualche modo per divertirsi, ma in che misura l’azione spettacolarizzante del film è diversa da quella del telegiornale dentro il film? D’altronde come qualunque altro POV Megan is missing aspira (si sa che è tutta finzione, ma non importa) a raccontare un fatto supposto vero, e di fatto ricostruisce in maniera documentaristica gli eventi precedenti il rapimento accumulando la tensione e gestendo con sagacia l’inquietudine. Ma non sta effettivamente ricostruendo gli eventi o la tragicità della realtà nella maniera piatta in cui lo sta facendo il tg? In maniera impellente in questo piccolo film si pone insistente simile quesito, e la risposta appare davvero difficile a darsi. È vero che, come già detto, il tg non problematizza, mentre il film lo fa a tutti i costi, ma a quel punto si dovrebbe andare ad analizzare il presunto iperrealismo della pellicola: stiamo guardando una realtà? Ebbene sì, secondo i presupposti del genere. Ma che realtà stiamo guardando? Una casuale o una scelta in maniera accurata e, in un certo senso, “manipolata”? Si dovrebbe credere, anche stavolta, in una riorganizzazione certo metodica però di immagini prettamente casuali, riprese come puro atto documentaristico, in maniera certo non funzionale alla visione pubblica. Eppure, siamo davvero sicuri che il documentario, come il finto documentario, debba raccontare “personaggi”? In Megan is missing Michael Goi si sofferma sui volti della giovane Amy, timida e ancora acerba, e sulla festa pazza cui Amy va insieme all’amica Megan, matura e sessualmente propositiva, fuoriuscendo evidentemente dalle intenzioni ultime del film per farci avvicinare ai personaggi. Ma in che misura si può creare un’attrazione empatica in immagini fredde e confuse come quelle di un POV? Mettiamo da parte i veri documentari di Herzog e Wang Bing, che pure trovano l’empatia, e anche quelli di Wisemen e Moore, che invece cercano di scandagliare dall’esterno contesti ben precisi: il POV non ha evidentemente quelle pretese, perché la realtà che mette in scena è fittizia. Ma supponendo che sia vera, che tipo di documentario dovrebbe essere? Probabilmente nessuno dei due, probabilmente uno di quei filmati che casualmente e fortunosamente colgono eventi orrorifici nel reale; e quindi, in un certo senso, volendo sforzarsi, sarebbero più assimilabili ai documentari che vogliono “scandagliare contesti ben precisi” senza empatia. Eppure l’intento del mockumentary horror è “far paura”. E allora, si cerca l’empatia? Ebbene, in questo labirinto di realtà e finzione, che a ben pensarci sollecita questo genere tanto bistrattato e su cui pochi hanno voglia di soffermarsi, si possono creare davvero storie appassionanti, tutte all’interno di messe in scena volutamente grossolane che riprendono in maniera barbara e quasi primordiale la realtà (irreale). Insomma, film spontanei, a prezzo della verosimiglianza (giusto per aggiungere un parametro al paradosso). E cosa aggiunge, Megan is missing, a questo arabesco scolorito? Aggiunge semplicemente una curiosa riflessione sul morbo dell’immagine, sulla mostruosità dell’occhio umano, sulla voglia di esibirsi e in che misura questa possa influire sul normale corso degli eventi. È evidente che la gioventù globalizzata ormai utilizzi le webcam come cellulari, e affidi alle immagini la propria vita (similmente a come fanno proprio le due protagoniste, tra cui in particolare Amy, che decide di creare un video-diario con la sua nuova videocamera), ma in che misura la vita reale può davvero essere influenzata da simili protesi quasi autonome, che con la loro freddezza robotica ispirano anche tanto ma tanto sadismo? Ancora una volta il POV desta più di un interrogativo, ma il coinvolgimento e la sottile inquietudine crescente che genera Megan is missing giustifica una serie di riflessioni che normalmente la maggior parte delle persone riterrebbero fuori luogo, semplici perdite di tempo. E che invece aprono nuovi orizzonti sul fronte del legame di finzione e realtà e su come si ponga, in questo senso, l’immagine. Se solo questi film presentassero personaggi meno dati per scontati e situazioni realmente innovative..

Megan is missing rappresenta la valenza plurima dell’immagine, della vista, della modernità. E con il monologo “indiretto” del finale (con la supplichevole Amy che si lancia in una [finta?] dichiarazione d’amore [da collegare a The Poughkeepsie Tapes e al suo eccezionale finale]) e le buone vecchie sane convenzioni da teen-horror che sembrano però rivolgersi e analizzarsi loro stesse (proprio come fanno gli adolescenti, che trovano nell’autostima quella dimensione meta-esistenziale in cui vivendo possono guardarsi), il film finisce per essere anche uno dei prodotti più coraggiosi e avvincenti degli ultimi anni nell’ambito del found footage. Abbastanza affascinante, nella sua barbara spontaneità “robotica”, da destare più di un dubbio: non è un caso che il motivo del rapimento si può solo supporre, ma mai confermare, come anche il motivo profondo per cui Megan scelga come amica del cuore Amy, che pure è tanto diversa. Tante supposizioni: ma cos’altro c’è di più affascinante dell’ambiguità? O del paradossale atto di fede che ogni buon POV fatto bene finisce per chiedere, pur nella sua (ostentata, voluta) mediocrità estetica?

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