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Torneranno i prati

Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Torneranno i prati

di ed wood
9 stelle

Fra gli “unsung heroes” del cinema moderno, bisogna assolutamente includere Ermanno Olmi. Il regista bergamasco è stato troppo spesso liquidato come un minore, niente più che un decoroso ripropositore di modi e temi di ascendenza neorealista, applicati ai piccoli drammi della gente comune. Salvo poi essere rivalutato, incensato e chiamato addirittura “Maestro” dopo che, con il “Mestiere delle armi”, aprì col botto gli anni Zero del cinema italiano. In realtà Olmi è stato, ed è tuttora, un grande innovatore, uno di quei registi che ama sperimentare sul linguaggio, sulla forma. Sotto questo aspetto è sempre stato al passo coi tempi. “I fidanzati”, solo per fare un esempio, è uno dei capolavori misconosciuti degli anni 60, per come abbina la lezione della Rive Gauche ad una puntigliosa attenzione alle problematiche sociali e sentimentali dell’uomo moderno: un mix di Resnais ed Antonioni, con l’aggiunta di un caldo umanesimo di fondo estraneo ad entrambi. Da una parte, quindi, la consapevolezza del mezzo filmico; dall’altra un’umiltà e una semplicità scevre da ogni tentazione intellettualistica (pregio che è stato scambiato per difetto da certa critica e che infatti non è gli è mai stato perdonato). Facendola breve: non è un regista per radical-chic. Anche “Torneranno i prati”, oltre mezzo secolo dopo “I fidanzati”, resta fedele a questi principi. Sin dal bellissimo titolo, è un film che parla la lingua della saggistica, della poesia, del documentario mascherato, dell’elegia, dell’invettiva, del teatro brechtiano, della sinfonia audiovisiva. Come il precedente “Il villaggio di cartone”, ma in maniera più lucida, concisa e matura, lasciando da parte alcuni eccessi, scorie ed ingenuità, si tratta di un’opera-discorso in cui si espongono sommessamente, ma non senza esplosioni di rabbia e dolore, i nodi cruciali di tragedie tanto storiche quanto attuali (l’immigrazione là, la guerra qua). Si potrebbe ricondurre il lavoro di Olmi ai più moderni cine-sguardi in materia bellica: viene in mente “Per il re e per la patria”, freddo ed implacabile saggio antimilitarista di Losey, oppure una sintesi del materialismo di un Fuller con il trascendentalismo di un Malick a forgiare una poetica dura, cruda e disperata, ma non per questo chiusa in un nichilismo di comodo. Certo, è un film disperato, ma disperatamente umano. E’ forse l’Olmi più pessimista di sempre, dove nemmeno la Fede cristiana può portare consolazione: c’è pure spazio per bestemmie ed imprecazioni, che mai come in questo contesto risultano naturali e per nulla provocatorie. Il suicidio di un soldato, mostrato senza omissioni né compiacimento, rincara la dose. Nel caposaldo alpino in cui viene magistralmente ambientato tutto il film, in quel posto dimenticato da un Dio sordo ed assente, solo canti, abbracci, lettere, il candore di animali in libertà e l’immaginazione di un larice dorato (momento visionario, destinato ad essere funestato dall’atroce realtà del conflitto) possono offrire un supporto spirituale; non certo dogmi e dottrine. “Torneranno i prati” è un film che, pur valorizzando ciò che il cinema mette a disposizione e pur facendo leva sulla bellezza dell’immagine, va oltre le convenzioni più stantie del cinema stesso, bellico e non. E’ notevole il rigore (macchina da presa praticamente sempre immobile) con cui Olmi governa un’azione pressoché inesistente e una definizione spazio-temporale malleabile: è un film che riscrive i codici delle tre unità aristoteliche, dilatandole ed incidendole, in modo da farvi penetrare il suo “discorso”. “Il tempo si è fermato” recitava il titolo del primo docu-film di Olmi (fra l’altro, anch’esso di ambiente montanaro): una perfetta parafrasi per questo suo ultimo lavoro. In questa implosione sia narrativa sia descrittiva, fra un’ellisse e l’altra, si alternano momenti di intensa e sofferta dialettica: il maggiore ed il capitano espongono le loro opposte ragioni, con un tono recitativo ibrido fra Brecht ed una emotività repressa, creando quindi una sorta di doppio straniamento (il linea con quel fascino spurio, imperfetto, “casereccio”, che da sempre costituisce la cifra di Olmi: e anche qui, è funzionale l’utilizzo dei vari dialetti sottotitolati). Nella seconda parte, emerge la figura del “tenentino” appassionato di filosofia: da notare come questi sia solito chinare il capo, timidamente, ogni volta che viene inquadrato nella prima parte; poi prende coraggio e nel finale guarda dritto in macchina per denunciare l’assurdità della guerra. Non è l’unico: l’ultima parte è una catena di confessioni fatte dritte in faccia allo spettatore, mentre i modi del documentario e del saggio arrivano a collidere. Il cuore del film però non lascia posto alle parole, ai pensieri, alle riflessioni; ma solo al boato delle bombe che squarciano il silenzio e mettono a soqquadro il caposaldo. Sono scene che fanno star male, che rivelano senza filtri cosa significhi letteralmente “prendere le bombe in testa”: pochi film hanno questa trasparenza ed onestà. Momenti strazianti, quasi insostenibili per il loro realismo, che fanno eco allo sfogo del capitano, un urlo destinato a rimbalzare nella claustrofobia del bunker. Servito da una miracolosa fotografia, plumbea e suggestiva (un colore che si mimetizza nel b/n; grande resa dell’oggettistica; momenti figurativamente straordinari come la sepoltura al chiaro di luna), da un sonoro raffinato che esalta allo stesso modo clangori distanti, versi animali e colpi di tosse, da un montaggio infallibile che procede secondo associazioni poetiche anziché logiche narrative, “Torneranno i prati” colpisce nel segno e rappresenta il miglior tributo possibile alle vittime di tutte le guerre. Alla fine, le immagini di repertorio mostrano parate e gloria effimera, la facciata ipocrita della memoria: i morti ammazzati restano però sepolti, dimenticati, nell’attesa vana di qualche “recuperante”. Per fortuna, il grande cinema contribuisce come può ad evitare che le tracce di queste tragedie si sciolgano come neve a primavera. 

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